Repole va di gran carriera: consultore del Sant'Uffizio
Eusebio Episcopo 07:00 Domenica 12 Gennaio 2025La designazione nel Dicastero per la Dottrina della Fede sottolinea ancora una volta l'apprezzamento di cui l'arcivescovo di Torino gode a Santa Marta. Altro riconoscimento che lo proietta nelle alte sfere del Vaticano. La legge secondo Francesco
Papa Francesco ha annoverato fra i consultori del Dicastero per la Dottrina della Fede l’arcivescovo di Torino e Susa, cardinale Roberto Repole. La nomina è un ulteriore segno dell’apprezzamento che il presule torinese gode presso Santa Marta e del suo apporto come teologo all’organismo che dovrebbe promuovere la fede e che, prima della riforma di Paolo VI era la «Suprema e Sacra Congregazione del Sant’Uffizio» presieduta dal pontefice. Poi fu declassata e al comando fu posta la Segreteria di Stato a significare la primazia della politica sulla fede. Adesso, surclassata quest’ultima, il papa presiede il Dicastero per l’Evangelizzazione, ma in Vaticano tutti sanno che chi comanda e spadroneggia è la Segreteria per l’Economia il cui prefetto è un laico. Dal primato della fede a quello dei soldi.
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Si è conclusa con un comunicato che, pur nell’obbedienza al papa, manifesta tutto il suo disappunto, la penosa vicenda di monsignor Dominique Rey, vescovo della diocesi di Frejus-Toulon costretto, senza alcuna motivazione plausibile, a rassegnare le dimissioni. Vicenda che ricorda, per molti aspetti, quella di monsignor Mario Oliveri, vescovo di Albenga, anche lui «dimesso» dopo avergli imposto un coadiutore a «normalizzare la diocesi» o quella di monsignor Joseph Strickland, vescovo di Tyler in Texas, fatto dimettere nel 2022, anche lui con il seminario pieno, ma reo di aver difeso il deposito della fede e criticato le opinioni eterodosse di vari alti prelati. Ma quali sono le colpe di monsignor Rey? L’eterodossia dottrinale? L’aver coperto abusatori seriali alla Rupnik come il suo collega di Piazza Armerina? Aver rubato o malgestito il denaro della diocesi? Aver stuprato? Essersi ribellato al papa? L’essere un tradizionalista incallito? No. La sua colpa è stata quella di essersi occupato del seminario e averlo riempito, aver accolto giovani che volevano diventare sacerdoti, curare la liturgia e difendere la dottrina e queste sotto Francesco sono colpe imperdonabili. Naturalmente il subdolo nunzio in Francia, monsignor Celestino Migliore, detto “il Peggiore”, ha esultato. Ci sarebbe da dire poveretto, perché è noto come in Francia le chiese siano ormai frequentate in maggioranza da fedeli tradizionalisti nelle loro varie accezioni.
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Mentre Francesco cala la scure in Francia, negli Stati Uniti promuove uno dei suoi più discussi pupilli, da sempre legato al famigerato ex cardinale predatore sessuale Theodore Edgar McCarrick, ora ridotto allo stato laicale, nominando arcivescovo di Washington DC il cardinale Robert McElroy, vescovo di San Diego. Questi si oppone vigorosamente al rifiuto dell’Eucaristia ai pubblici fautori dell'aborto come Nancy Pelosi e Joe Biden, promuove l’ideologia Lgbt+ ed è noto per aver votato contro una petizione che sollecitava il Vaticano per una maggiore trasparenza e rapidità su McCarrick. Ma non solo, McElroy ha anche omesso di agire in un caso eclatante di abusi sessuali da parte di un sacerdote della sua stessa diocesi, ritardandone di un anno la rimozione, e di non aver indagato
adeguatamente sul caso. Naturalmente egli si distingue per essere un fiero oppositore della Messa antica sopprimendone la celebrazione. Secondo alcuni, tale nomina sarebbe la risposta del papa alla designazione, da parte del presidente eletto Donald Trump, come nuovo ambasciatore presso la Santa Sede, di Brian Burch, fervente cattolico, sostenitore delle battaglie pro-vita e che – particolare curioso – ha intentato una causa contro l’Fbi e il Dipartimento della Giustizia accusandoli di spiare a nome del governo le comunità di fedeli legate alla Messa antica.
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L’altra notizia di questi giorni, che i media mainstream hanno accolto con soddisfazione generale, è la nomina del primo prefetto donna della Curia romana nella persona di suor Simona Brambilla, dell’ordine dei Missionari della Consolata, e che andrà a dirigere il Dicastero per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, di cui era già segretaria, succedendo al cardinale brasiliano João Braz de Aviz. Nel nuovo incarico, la religiosa sovraintenderà al governo di centinaia di istituti, ordini e congregazioni, maschili e femminili, avendo come sottoposto in qualità di pro-prefetto l’ex rettor maggiore dei salesiani e cardinale, Ángel Fernández Artime. Eserciterà quindi quello che nel diritto canonico è definito come «potere di giurisdizione» e che da sempre nella Chiesa cattolica è riservato all’ordine clericale (diaconi, presbiteri e vescovi), così come previsto dal canone 129, dove si stabilisce che «abili alla potestà di governo, che propriamente è nella Chiesa per istituzione divina e viene denominata anche potestà di giurisdizione, sono gli insigniti dell’ordine sacro, a norma del diritto».
Il punto, al di là della noncuranza del papa per le leggi di cui dovrebbe essere il garante, rinvia alla tradizionale distinzione tra i due poteri, di ordine e di giurisdizione, che non è separazione ma collaborazione e convergenza. Contro questa distinzione ha combattuto e infine vinto la sua battaglia, tanto da essere premiato da Francesco con la porpora, il gesuita padre Gianfranco Ghirlanda. Nella sgangherata riforma della Curia romana, approvata con la Costituzione apostolica Praedicate Evangelium, del 9 marzo 2022, si può leggere perciò che «qualunque fedele può presiedere un Dicastero o un Organismo» della Curia Romana «in virtù della potestà ricevuta dal Romano Pontefice in nome del quale opera con potestà vicaria nell'esercizio del suo munus primaziale».
Il fatto, come fu segnalato da valenti teologi e dai canonisti più attenti, presenta aspetti rivoluzionari perché sovverte non solo la tradizionale dottrina che distingueva tra il potere di giurisdizione che fa capo al Romano Pontefice, e il potere di ordine che è legato alla consacrazione episcopale, ma perché contrasta con uno dei principi-cardine della teologia del Concilio Vaticano II per cui il potere di giurisdizione, o di governo, viene assorbito da quello di ordine, o sacramentale. In tal modo la Chiesa si libererebbe dal suo rivestimento giuridico per diventare «profetica» con il papa a fare da primus inter pares nel collegio dei vescovi. Secondo il cardinale Ghirlanda invece «la potestà vicaria per svolgere un ufficio è la stessa se ricevuta da un vescovo, da un presbitero, da un consacrato o una consacrata, oppure da un laico o una laica. Ciò significa che qualsiasi laico, anche una donna, potrebbe, ad esempio essere nominato Segretario di Stato o prefetto di Congregazione, perché essi ricevono il potere direttamente dal Papa e non dall’Ordine».
Se al semplice fedele tali questioni teologiche appaiono astruse, sono invece proprio esse che rivelano il cambiamento che Francesco sta con disinvoltura imprimendo alla Chiesa. Lo ha colto molto bene in una intervista del 2022, lo storico Alberto Melloni, capofila della “Scuola di Bologna” e del progressismo cattolico, che ha definito il principio su cui si fonda Praedicate Evangelium, «una tesi che colpisce al cuore il Concilio Vaticano II, e che costituisce un punto dirimente per il futuro della Chiesa». Lo stesso Melloni, qualche mese, fa ha rincarato la dose chiarendo che il punto non è la ridislocazione di mansioni all’interno della Curia romana «ma l’argomento con cui si è voluta creare la possibilità di nominare in Curia delle persone non consacrate vescovi. Per fare ciò, presumo fidandosi di padre Ghirlanda che ha poi fatto cardinale, Francesco ha restaurato la distinzione tra potestà d’ordine e potestà di giurisdizione. Sono aspetti di una sottigliezza assoluta ma decisivi, infatti la distinzione delle due potestates conferisce al papa tutta la giurisdizione ma in questo modo si diffonde una visione diversa dell’episcopato secondo me molto più debole di quella del Concilio».
Per una volta siamo così anche noi d’accordo con Andrea Grillo che rileva la confusione in cui il papa sta cacciando la Chiesa, osservando che «se si vuole riconoscere l’autorità di una donna, senza cambiare il codice, occorre ordinarla. Non c’è una terza via. La riforma della Chiesa si può fare solo modificando le norme, non agendo praeter o contra legem». Così il papa, volendo compiere un abuso, restaura un principio tradizionale ma, per paradosso, assesta un colpo alla teologia progressista. I cui esponenti più intelligenti e al riparo dalle ritorsioni cui sono sottoposti i chierici, vanno su tutte le furie rendendosi ben conto delle contraddizioni e dei pasticci che il pressapochismo e l’autoritarismo di Francesco sta provocando.
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Molto più profane e tutte politiche sono le oracolari esternazioni dell’ex priore di Bose, Enzo Bianchi, “monaco da palco”, che in una sua intervista di fine anno ne ha avute per tutti. Si salva solo il papa, che però non è capito, né seguito dalla Chiesa: «Non lo capiscono nemmeno quelli che lo scimmiottano, tanti preti di strada che sono diventati star». Intanto però l’occasione è propizia per tiragli qualche stoccata, in primis con il Giubileo, indetto da Francesco, che sarà «un gran carrozzone di pellegrinaggi a Roma ma non si risolverà in nulla» e che dividerà i cristiani. Perché si parlerà di indulgenze e quindi sarà «un giubileo solo cattolico», così come quello voluto dal cattivo Bonifacio VIII. E poi perché – e in questa battuta c’è tutta la teologia di fratel Enzo – «a forza di spiritualità annulliamo il Vangelo», mentre oggi dalla Chiesa gli uomini pretendono impegno e lotta sociale e politica. Parte poi un furibondo attacco agli Stati Uniti dove «che ci fosse Biden o che vi sia Trump, saranno comunque gli altri a decidere» e cioè la plutocrazia delle multinazionali, per cui la guerra in Medio Oriente «è fatta a nome degli Stati Uniti che vogliono avere un piede in questa zona dove c’è una parte cospicua del petrolio».
L’Italia poi è un vero disastro con un governo guidato da una Giorgia Meloni che «comunica bene all’italiano medio e volgare che ha bisogno di qualcosa di gridato e forte, nemmeno pensato», mentre Matteo Salvini «manca proprio dei connotati di cultura» e il generale Roberto Vannacci è «uno di quei residui, che purtroppo ci sono ovunque, di una volgarità fascista che permane anche da noi. Anche alla sinistra, fratel Enzo non risparmia le sue geremiadi: nessuna visione e protagonismo narcisista. Insomma, parafrasando il titolo che Il Mondo di Mario Pannunzio inalberava snobisticamente dopo ogni elezione «Paese immaturo». Niente da dire poi sulla guerra in Ucraina, né sul pacifismo o sul rapporto di Mario Draghi che invita l’Europa a dotarsi di un poderoso complesso militare industriale e nemmeno un cenno su di una eventuale e sempre prossima rinascita del Centro politico che, per un ex esponente democristiano dei tempi andati come lui, appare molto eloquente. E allora alla domanda su chi sceglierebbe se si andasse a votare, la risposta del guru di Albiano è inequivoca: «Non andrei al seggio».