SANITÀ

Chiudere i punti nascita sotto i 500 parti, in Piemonte a rischio almeno 5 ospedali

Allarme del presidente della società di Ostetricia: "Non garantiscono sicurezza". La carenza di medici accentua i problemi. Dieci anni fa una serie di chiusure. Oggi la questione si ripropone da Domodossola a Casale Monferrato

In un Paese dove nascono sempre meno bambini privare una parte di territorio della struttura in cui partorire resta una delle imprese più difficili e impopolari. E questo anche a dispetto dell’unanime indicazione della scienza sul conclamato aumento dei rischi per madre e bambino correlato agli ospedali dove si registra un basso numero di parti. Accade così, ormai da molti anni, con cicliche misure di riduzione dei punti nascita minori concentrandoli in ospedali più grandi e immancabili reazioni in difesa da parte di amministrazioni locali, spostando spesso una questione di tutela della salute sul terreno della battaglia di campanile.

L’ultimo allarme sul rischio rappresentato dalle strutture dove si assistono pochi parti è di queste ore e arriva da Vito Trojano, presidente della Società italiana di ginecologia e ostetricia, il quale ribadisce la necessità di chiudere tutti quelle strutture dove annualmente si registrano meno di 500 nascite. “I punti nascita a basso volume, ovvero sotto i mille parti – sostiene il presidente di Sigo – non sono in grado di garantire la migliore esperienza clinica e l’organizzazione necessarie per prevenire ed eventualmente affrontare le imprevedibili situazioni di rischio non garantendo, così, una sicura assistenza per le pazienti”.

Una tesi, in verità, accolta sia pure in parte e con successive immancabili deroghe dalle Regioni già nel 2010 con un accordo siglato con il Governo dove venivano fissate le linee di indirizzo e la possibilità di mantenere in attività i punti nascita in alcune aree particolarmente complicate dal punto di vista del territorio e delle comunicazioni, comunque sempre con un numero di parti non inferiore a 500. Una soglia che, come spesso accade, ben presto finirà per abbassarsi in virtù di ulteriori deroghe, non di rado con alla base la difesa di queste strutture a parte della popolazione e delle amministrazioni locali. Una situazione, diffusa in tutto il Paese che lo stesso Trojano cita come il “malcelato conflitto tra il diritto a ricevere cure sicure da una parte e poter essere seguiti durante la gravidanza e il parto vicino a casa, dall’altra”.

Scenario ben noto in Piemonte dove all’interno degli stessi confini regionali sta l’ospedale Sant’Anna di Torino, ovvero la struttura dove si registra il record italiano di nascite sfiorando i 6mila parti annui e una tra quelle con i numeri più piccoli di tutto il Paese, come l’ospedale di Domodossola dove di bimbi nati ogni anno se ne contano ben meno di cento. Una decina di anni fa la Regione decise che non si sarebbe più partorito a CarmagnolaBraCuorgnèSusaTortona e Acqui Terme. Chiusure che portarono il Piemonte a superare la media nazionale del 44% delle sale parto con una “produzione” superiore ai 500 casi l’anno, attestando quella regionale attorno al 77%. Ciò non elimina quelle situazioni ancora critiche che la costante denatalità in una regione sempre più anziana e povera di nascite, non potranno che accentuarsi.

Il recente rapporto del piano nazionale esiti di Agenas, l’agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, ha posto nuovamente la questione per quei punti nascita al di sotto del limite che rispondono a Verbania con 474 parti, Chieri con 430, Vercelli dove non sono stati superati i 392, Casale Monferrato con 279 e la già citata Domodossola dove l’ultimo rilevamento si fermava a 77. Altri casi suppergiù analoghi, sono stati temporaneamente affrontati unendo due punti nascita, o meglio facendo far la spola tra l’uno e l’altro dalla stessa equipe medica. Perché è proprio l’aspetto che riguarda il personale e non la struttura in sé a rappresentare un fattore di rischio. “Per chi lavora nei piccoli ospedali – spiega il presidente della società scientifica – è impossibile formarsi e mantenere un’abilità medica e chirurgica, lavorando in strutture a basso volume”.

A richiamare “la sicurezza della paziente e del bambino come priorità assoluta, rispetto a qualsiasi altra valutazione” è Chiara Benedetto, docente di Ostetricia e Ginecologia all’Università di Torino, nonché presidente presidente del Comitato mondiale per la Salute e la Cura della Donna e per anni primario al Sant’Anna. “Fondamentale soprattutto per le situazioni più complesse e a rischio – aggiunge Benedetto – è il concetto di rete tra ospedali dove l’esperienza degli operatori è in grado di affrontare eventuali problematicità. Considerato che per le gravidanze a rischio già si ragiona con un sistema che prevede centri hub e centri spoke, è importante garantire sempre un’assistenza che implica un numero adeguato sia di personale medico, sia del comparto sanitario”.

E visto che in entrambi i casi la carenza è sempre più marcata, anche questo aspetto non può che inserirsi nei ragionamenti e nelle scelte che più prima che poi andranno fatte su quei punti nascita dove non si raggiunge la soglia minima o addirittura se ne resta molto lontani. “Una questione che – osserva ancora Benedetto – non può prescindere da una programmazione per il futuro”. Quella programmazione che il Piemonte attende da anni e che dovrebbe finalmente arrivare con l’annunciato nuovo piano sociosanitario, nel quale la questione dei punti dove nascere in una regione in cui il tasso di natalità (6,1 per mille) è inferiore alla già bassa media nazionale (6,7) non potrà essere affatto marginale.

print_icon