Al potere per "via giudiziaria"

Il vizio, o meglio la strategia, partono da lontano. Purtroppo, è insito nella storia della sinistra italiana. Quella, però, di matrice comunista prima e post o ex comunista poi. Si chiama molto semplicemente e giornalisticamente la “via giudiziaria al potere”. Ovviamente sempre negata ufficialmente perché, altrettanto ovviamente, sempre praticata ufficiosamente. E parte, appunto, da lontano.

È appena sufficiente ricordare il progetto politico del glorioso Pci all’inizio degli anni ’80 quando viene teorizzata “l’alternativa morale al sistema di potere democristiano”. Un progetto che contempla l’abbattimento politico del cosiddetto “sistema di potere della Democrazia Cristiana” da un lato e, dall’altro e pur senza evocarla, una oggettiva e persino scontata iniziativa giudiziaria che distrugga definitivamente ed irreversibilmente quella lunga, ricca e feconda esperienza politica e di governo. E parliamo di una strategia, come ovvio, vecchia di oltre 40 anni.

Dopodiché, come sanno anche i sassi, quel metodo si è affinato ed arricchito nel corso degli anni perché, nel frattempo, sono cambiati i protagonisti: dai partiti al ceto dirigente, al di là di ogni valutazione politica e culturale sui medesimi. Ma è rimasto intatto il filo rosso animato dalla volontà di delegittimare l’avversario/nemico politico di turno. Prima attraverso la delegittimazione morale – da qui la cosiddetta e misteriosa “superiorità morale” della sinistra rispetto agli avversari/ nemici politici – e poi l’annientamento politico a cui dovrebbe far seguito anche una sorta di criminalizzazione giudiziaria.

Un teorema che, purtroppo, persiste nel sistema democratico del nostro Paese e che riemerge periodicamente come un fiume carsico perché, appunto, è nelle corde di un segmento politico consistente. E gli avvenimenti di questi giorni, al di là e al di fuori di ogni valutazione di merito sulla complessa ed articolata vicenda del rimpatrio del generale libico, evidenzia una costante che purtroppo ci accompagna da oltre 40 anni. E le dinamiche sono sempre le stesse anche di fronte ad un profondo cambiamento dei partiti e delle rispettive classi dirigenti. E questo perché è la cultura politica di fondo che, nel frattempo, non è affatto cambiata. Anzi, si è ulteriormente rafforzata anche perché manca quella classe dirigente, comunque sia autorevole e qualificata, che aveva caratterizzato e contraddistinto l’intera stagione della prima repubblica e buona parte dell’inizio della seconda. Prima dell’arrivo del populismo dei 5 stelle che ha rappresentato, per dirla con Mino Martinazzoli, “il nulla della politica” nella storia democratica del nostro paese.

Ora, se l’obiettivo è quello – ma sembra, purtroppo, una meta sempre più pallida ed impalpabile – di rafforzare e consolidare la “qualità” della nostra democrazia e, al contempo, la credibilità delle nostre istituzioni democratiche e la stessa efficacia dell’azione di governo, è del tutto evidente che questo vecchio tic della sinistra italiana, seppur nelle sue multiformi espressioni, va archiviato definitivamente e senza ombre. Se dovesse persistere, come pare sempre più evidente, non lamentiamoci se la democrazia dell’alternanza nel nostro paese resta sostanzialmente un miraggio perché, al suo posto, si afferma e si consolida quella che comunemente viene chiamata la strategia degli “opposti estremismi”, frutto e conseguenza della permanente radicalizzazione del conflitto politico. Ovvero, l’esatto contrario della cultura, dello stile, della prassi, del pensiero e della tradizione di quello che è stato – e che è – nella storia politica del nostro Paese il cattolicesimo democratico, popolare e sociale.

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