SACRO & PROFANO

Il monsignore e l'invidia del pene

Ha fatto scalpore la partecipazione del vescovo Staglianò alla presentazione di un libro dall'eloquente titolo. La curia di Torino torna ai vecchi uffici ma non ammette il fallimento. "Tiro al bersaglio" di Francesco nella diocesi di Roma

Sua Eccellenza Antonio Staglianò, vescovo presidente della Pontificia Accademia di Teologia, ha partecipato alla presentazione romana del volume L’invidia del pene di Marzia Roncacci, volto del Tg2 che, per la verità, è provocante più nel titolo che nel contenuto, proponendo di fatto il superamento della nota teoria freudiana, a favore di un’accoglienza piena dell’identità femminile da parte della donna. Ci si chiede a quale titolo il presidente della più prestigiosa accademia teologica romana, nonché in quanto vescovo, successore degli Apostoli, abbia presenziato all’evento cultural-mondano. Staglianò è il massimo esponente di un’istituzione, fondata nel 1695, espressione di quella scuola teologica romana che ebbe fra i suoi più autorevoli esponenti il cardinale Alfredo Ottaviani, monsignor Antonio Piolanti e monsignor Brunero Gherardini, straordinario ecclesiologo e critico dell’ermeneutica post-conciliare. In tempi recenti poi, dopo la riforma di San Giovanni Paolo II, ne sono stati presidenti illustri teologi come il cardinale Angelo Amato e monsignor Piero Coda. Tuttavia, dopo l’ulteriore riforma voluta da papa Francesco nel 2023, l’Accademia propone una «teologia in uscita» a servizio di una «Chiesa in uscita», ma siamo certi che Sua Santità non intendesse esattamente il tipo di uscita che monsignor Staglianò ha fatto in occasione della presentazione del libro.

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Uno stupefacente e anodino comunicato della diocesi di Torino ha dato la notizia dell’abbandono, dopo nemmeno vent’anni dall’inaugurazione, degli uffici della curia nel complesso del Santo Volto, che «ritorneranno nella vecchia sede di via Arcivescovado». La motivazione non sarebbero i costi di gestione e di manutenzione dell’edificio progettato da Mario Botta, ormai diventati insostenibili, ma il «venire incontro» alla Questura per rimediare alle interminabili code all’ufficio immigrazione di corso Verona. Un gesto di «accoglienza» e di aiuto verso gli immigrati e non – a parte il significato simbolico del dietrofront – l’onesta ammissione di una operazione che, se pure non compiuta dagli attuali vertici diocesani, si è rivelata fallimentare. Ci si chiede se, prossimamente, subirà la stessa sorte il grandioso, e scarsissimamente utilizzato, auditorium sotto il sagrato. Qualche prete si sta chiedendo poi che fine abbia fatto la villa arcivescovile che il cardinale Severino Poletto fece edificare sibi et suis successoribus sulla collina di Testona: si vocifera che sia già stata venduta. Tra l’altro, pur non obbligatoria per legge, la pubblicazione del bilancio e del rendiconto della diocesi costituirebbe una bella operazione di trasparenza. Purtroppo, bisogna ammetterlo, si sente la mancanza di preti come don Carlo Carlevaris che, all’epoca, fu l’unico a levarsi pubblicamente contro la faraonica costruzione del Santo Volto e degli altrettanto faraonici suoi annessi diventati, dopo nemmeno quattro lustri spazi per uffici pubblici.

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Gli effetti e le conseguenze di aver nominato un vescovo tratto dal clero locale (che ha messo nei posti-chiave solo i suoi sodali) e non, secondo la saggia tradizione della Chiesa, proveniente da altra diocesi, stanno, come avevamo previsto, uno per uno, venendo al pettine, mettendo in difficoltà quel disegno di «ripensamento della presenza cristiana sul territorio» in atto e che consiste nel drastico accorpamento delle parrocchie. Così, per lo spostamento dei preti, non si invoca più, come agli inizi, la lunga permanenza in una parrocchia (varrebbe per alcuni e non per altri: Si isti et ille, cur non ego?)  ma – udite un po’ – la virtù dell’obbedienza che, detto da chi non ha mai obbedito o lo ha fatto a modo suo, suona francamente paradossale. Anche e soprattutto nella Chiesa, l’“amichettism” alla lunga non paga.

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Continua, in pieno stile «sinodale», il “tiro al bersaglio” nella diocesi del papa dove i vescovi del consiglio episcopale da lui nominato, sono stati, uno dopo l’altro, decimati e dove non si salva più nessuno. Adesso, dopo aver spedito Gianpiero Palmieri ad Ascoli Piceno, Daniele Libanori in un remoto e inutile ufficio vaticano, Riccardo Limba ad Udine, Dario Gervasi a fare il segretario passa carte di Dicastero e Daniele Salera (a quale è andata ancora bene) ad Ivrea, è toccato a monsignor Paolo Ricciardi mandato vescovo di Iesi nelle Marche. Ne rimane uno, monsignor Benoni Ambarus, ma anche il suo destino appare segnato. Quanto poco tempo è passato dall’entusiasmo di quando vennero nominati vescovi ausiliari e si profondevano in lodi al pontificato bergogliano!

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Hanno destato un certo clamore le affermazioni del cardinale Ludwig Muller, teologo e già prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, secondo il quale, riferendosi all’elezione alla presidenza degli Stati Uniti di Donald Trump, sarebbe «meglio un buon protestante che un cattivo cattolico» e ha aggiunto che «molti cardinali e vescovi la pensano come me, anche se hanno paura di dirlo». Invertendo di 15 punti la tendenza di quattro anni prima, nelle ultime elezioni presidenziali il 56 per cento del voto cattolico è andato a Trump che è riuscito a presentarsi come quel “male minore” rispetto a Kamala Harris che papa Francesco aveva additato in vista del voto americano, senza però specificare quale fosse. Circa il nuovo ambasciatore Usa in Vaticano, Brian Burch, il cardinale Muller ha detto: «Mi hanno detto che è un buon cattolico. E Trump aiuterà la Chiesa perché rappresenta i valori del diritto naturale: inviolabilità della vita, importanza de matrimonio, libertà religiosa». Puro fiele per i progressisti.

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