Il riformismo che divide

La cultura, la prassi, il metodo e il pensiero riformista inesorabilmente dividono il campo politico, sindacale e culturale. Ne abbiamo prova tutti i giorni e stupisce chi prova stupore di questa semplice ma oggettiva constatazione. E l’ultima occasione, al riguardo, l’ha fornito il recente avvicendamento al vertice della Cisl, lo storico “sindacato bianco” del nostro Paese e il dibattito sulla proposta di legge promossa e avanzata dalla stessa Cisl ancora guidata da Luigi Sbarra sulla “partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese”. Una proposta di straordinaria importanza che non solo applica un articolo della nostra Costituzione, l’art. 46, ma introduce un principio che può cambiare radicalmente lo stesso rapporto tra i lavoratori e le imprese. Una proposta dal chiaro sapore riformista che, appunto, ha diviso il campo sindacale e politico. E quindi, per fermarsi al sindacato, da un lato i fautori della “rivolta sociale”, della contrapposizione ideologica contro l’attuale governo e gli irriducibili “nemici” politici e, dall’altro, quelli che privilegiano il dialogo e il confronto con le parti sociali, che cercano di individuare soluzioni utili per tutti e che non fanno della virulenza e della polemica ideologica contro gli avversari la loro ragion d’essere. E cioè la divisione, profonda e radicata, tra la Cgil e la Cisl. Una visione che affonda le sue radici in una diversa, se non addirittura alternativa, concezione del sindacato e del ruolo che deve avere nella società contemporanea.

Una divisione che, come ovvio, non si ferma al campo sindacale ma investe anche e soprattutto la politica e le sue concrete dinamiche. Non è un caso che la prassi riformista è radicalmente contestata e contrastata dalle attuali forze del “campo largo”. E cioè, dalla sinistra radicale e massimalista della Schlein, dalla sinistra estremista del trio Fratoianni/Bonelli/Salis e dai populisti dei 5 stelle che privilegiano, al contrario, una visione che fa della radicalizzazione la sua stella polare. Ed è del tutto naturale, al riguardo, la perfetta adesione e convergenza con la strategia della “rivolta sociale” inaugurata dal vero leader della sinistra contemporanea. Cioè il segretario generale della Cgil Landini.

Una divisione, quella sulla cultura riformista, che divide profondamente anche il campo culturale e dell’informazione giornalistica e televisiva. Non è un caso che i talk televisivi riconducibili a questa visione radicale – cioè i vari Gruber, Floris, Formigli e via dicendo – affiancati e supportati dalla stampa quotidiana compiacente e collaterale, sostengano apertamente il nuovo corso della sinistra italiana. Una tesi che, appunto, esalta la radicalizzazione del conflitto politico e che considera il riformismo, come avveniva ai tempi del Pci, il vero nemico da abbattere.

Ecco perché, di fronte a questa concreta situazione, non si può che arrivare ad una sola conclusione. E cioè, consegnare la cultura, il pensiero e l’approccio riformista alle attuali forze di governo che, come ovvio, non sempre riescono a declinarli con la dovuta compiutezza e coerenza. Ma il quadro complessivo è alquanto chiaro e netto. E chi lo nega o non è intellettualmente onesto oppure, ed è peggio ancora, non si rende conto che abbandonare il riformismo al suo destino significa semplicemente non avere una cultura di governo e autenticamente democratica.

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