Tra un Nobel e un colpo di cannone

La Storia testimonia vicende apparentemente inspiegabili, a volte perché frutto di accordi segreti (e quindi oscure per le persone che non rivestono il ruolo di governo) e altre volte a causa delle contraddizioni che portano in grembo. Barack Hussein Obama, ad esempio, dal 2009 è premio Nobel per la Pace. L’assegnazione è avvenuta dopo pochi mesi dal suo insediamento, grazie agli “sforzi straordinari fatti nel rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli”. Obama, il 44° Presidente degli Stati Uniti, era in carica da soli 10 mesi al momento in cui gli veniva consegnato l’importante riconoscimento: non aveva avuto molte occasioni, quindi, per dimostrare le sue capacità in politica estera e il Nobel rientra quindi tra i “fatti storici incomprensibili”. 

In effetti, il Comitato del Nobel ha assegnato la preziosa onorificenza in seguito a scelte non sempre del tutto coerenti. Nel 1973 consegnò il premio a Henry Kissinger, segretario di Stato statunitense, pur avendo ricoperto il ruolo di regista (poche settimane prima della convocazione a Oslo) del golpe militare in Cile. Barack Obama, volendo confermare la bontà della decisione del Comitato, nel 2011 avviò l’intervento militare in Libia. L’operazione fu quasi interamente americana, e solo nei mesi successivi i Paesi della Nato parteciparono al conflitto (fra cui l’Italia) usando soprattutto armi a stelle e strisce. Il risultato fu terribile: otto mesi di bombardamenti con perdite civili stimate attorno ai 1000 morti, e la destabilizzazione totale dell’area nord africana.

Obama, inoltre, combatté anche una guerra non convenzionale contro i cosiddetti terroristi. Le uccisioni furono 318. In circa 318 missioni, attuate con i droni, morirono anche 286 civili e 270 persone non identificate (fonte: New America Foundation). Tanti furono i Paesi che, per merito dell’opera diplomatica del Presidente Obama, precipitarono nel caos interno (in particolar modo nell’Africa settentrionale e in Medioriente), mentre risulta tutt’oggi difficile rintracciare un atto davvero “Pacifista” che abbia contraddistinto il suo mandato. 

Quest’anno, sempre per tener fede all’intramontabile intromissione della politica nelle decisioni del Comitato, è facilmente prevedibile un Premio Nobel per la Pace a Biden, oppure (meglio ancora) a Zelensky, ossia ai protagonisti del più grande import-export di armi in questo millennio, mentre sarà certamente un outsider il neo Presidente Trump. Quest’ultima è una figura assai discutibile, come del resto le altre sin qui citate, ma non può essergli negato il merito di aver riattivato la via diplomatica in un conflitto tra i più sanguinosi del dopoguerra: ricerca di dialogo alimentata da ragioni economiche, non certo umanitarie, originate dalla guerra commerciale in atto tra States e Cina. 

Naturalmente, tra le contraddizioni di commentatori e analisti (anziché della Storia), non può mancare una riflessione dedicata proprio al Presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky: politico considerato da molti, soprattutto in Occidente, come al pari di un eroe che “vuole bene al suo Paese”, la cui professione è legata al modo dello spettacolo (è infatti un attore, soprattutto comico, oltre che regista). In Italia abbiamo avuto la fortuna di vederlo all’opera, grazie all’emittente dell’editore Cairo, la quale ha trasmesso il teleromanzo di cui il Presidente era unico vero protagonista (Servitore del Popolo, serie televisiva definita satirica).

La serie televisiva, in sintesi una denuncia contro la corruzione in cui versa il sistema di potere ucraino, ha dato in seguito il nome al partito che lo ha portato alla vittoria: successo elettorale garantito dai voti dei cittadini russofoni. A sorpresa, Zelensky ha vinto e si è trovato immediatamente in un gioco molto più grande di lui: in una situazione politica interna ed esterna che avrebbe faticato a governare un politico, uno statista, di grande esperienza, ma assolutamente non adatta a chi di politica aveva, sino ad allora, masticato ben poco.

Zelensky è diventato, suo malgrado, l’uomo giusto per consentire a Washington di portare a buon compimento i propri piani politico-militari, e a tal fine è stato abilmente usato: faceva comodo alle mire espansionistiche atlantistiche (appropriazione di preziose materie prime) e agli ipernazionalisti interni (Azov). Il Presidente, adesso che il vento è cambiato, non serve più a nessuno e può essere cinicamente gettato in discarica, come una scatola di ortaggi andata a male, mentre nel frattempo nell’Est Europa centinaia di migliaia di famiglie piangono i propri morti (a Kiev come a Mosca).

Mio nonno, che era stato a combattere su più fronti durante la Seconda guerra mondiale, ogni qualvolta leggeva di conflitti nel mondo diceva una frase, sempre la stessa: “Brutta cosa la guerra, brutta cosa. Arricchisce pochi e crea atroci sofferenze a tutti gli altri”. Difficile vedere capi di governo in trincea, a dormire nel fango, e altrettanto difficile immaginare un mondo migliore in un pianeta governato da leader come quelli che “regnano” in questi anni dati in pasto agli speculatori (da Trump a Biden, passando da Zelensky sino a Putin, Macron e Meloni). 

Forse il Premio Nobel per la Pace andrebbe assegnato al popolo, a chi si rifiuta di combattere contro i propri fratelli, a chi fugge o piange i suoi morti: si chiamino essi con nomi di origine ucraino polacca che russi. Invece sicuramente andrà a qualche macellaio, nel nome della Realpolitik (quella di comodo al momento dato, naturalmente) che, poco prima di andare a ritirarlo tra applausi e strette di mano, farà un accordo per lucrare sulle materie prima a danno dei soliti (di chi a fatica arriva a fine mese).

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