Tifoserie

Migliaia di italiani ogni settimana si riversano negli stadi per sostenere la squadra del cuore, affrontando sacrifici vari (sia sul lavoro che in famiglia) pur di incitare quei giocatori verso cui nutrono profonda stima, nonché indiscusso amore. Ai cori, tra gli spalti delle arene calcistiche, si alternano scontri in piazza per difendere i colori del proprio football club e, di tanto in tanto, negli autogrill delle autostrade prende il via la caccia al tifoso avversario.

“Tifare” è un’abitudine che oramai supera il calcio, poiché interessa tanti altri settori importanti del Paese, tra cui la politica e l’informazione: ambiti retti dal principio dello schierarsi a favore di una parte, oppure di una causa, mutilando ogni riflessione critica e rimuovendo tutte le incertezze in merito (spazzate via dalla ferrea fede). 

Ovunque, in tutti i settori della vita pubblica, la tendenza è quella di prendere ciecamente la difesa di una parte, meglio se in conflitto con un’altra, senza tener conto di altre versioni dei fatti da cui nasce la contrapposizione, e tantomeno valutando le tesi di coloro che vengono censurati perché etichettati con il termine “nemico”.

La nota conferenza stampa tenuta nei giorni scorsi nello Studio Ovale della Casa Bianca, dove inaspettatamente Zelensky e Trump hanno avuto un aspro confronto sul tema della guerra in Ucraina, ha letteralmente diviso in due l’Italia (tanto per cambiare), separando coloro che sostengono il Presidente Usa da chi invece ritiene il leader a stelle e strisce al pari di un pericoloso gangster. Sono bastate le poche immagini trasmesse dai media, una manciata di minuti rispetto al tempo reale dell’incontro con i giornalisti accreditati a Washington (circa un’ora), per formulare giudizi inappellabili, condanne e organizzare manifestazioni di piazza a favore del premier di Kiev.

Poche immagini, decontestualizzate dall’insieme del tutto, sono state sufficienti per redigere pubblici appelli (promossi da artisti e intellettuali simpatizzanti del Partito Democratico di Schlein) al sostegno bellico dell’Ucraina, e a spingere il partito di Calenda a riversarsi in strada, con le bandiere blu e gialle, al grido di “ingresso immediato di Kiev nell’Unione Europea così come nella Nato”.

La voglia di ridurre ogni cosa a una questione di tifoseria, a favore di una parte e contro l’altra, non ha suggerito ad alcun politico di attendere maggiori informazioni, in modo tale da comprendere come i due leader siano giunti a un tale acceso confronto. I sessanta minuti di conferenza stampa mostrano un Trump che insiste sulla necessità, legata in parte a ragioni umanitarie ma soprattutto a tutela del business, di chiudere il conflitto tra Russia e Ucraina raggiungendo un accordo, e un Zelensky inflessibile sulla necessità di continuare la guerra sino all’ultimo uomo (anzi il penultimo, poiché il suo esilio in qualche magnifica villa è ipotesi sempre attuale).

Trump ha avuto anche gesti di simpatia nei confronti dell’ospite, non sono mancate battute e pacche sulla schiena di Zelensky (con qualche critica da parte dei giornalisti per il perenne look militarista del leader ucraino) sin quando, all’ennesima dichiarazione di irriducibilità nei riguardi di Mosca, il Vicepresidente americano è intervenuto con durezza: una manciata di minuti dell’incontro allo Studio Ovale che la stampa italiana ha commentato, e riprodotto, facendo del Presidente dell’Ucraina un mito eroico.

La vicenda ha generato uno scossone in Italia e soprattutto a Sinistra: compagine sempre più divisa su Kiev. L’icona di Che Guevara, in alcuni settori della gauche, è caduta a terra poiché sostituita da quella di Zelensky, mentre altri paragonano la lotta partigiana antifascista con la resistenza al fronte dei soldati ucraini. Prese di posizione nette, indiscutibili, e immuni da qualsiasi approfondimento indirizzato alla comprensione di una situazione, in realtà, molto complessa: come si ripete da anni, una visione della guerra in atto ridotta a Bene contro Male, a eroi contro criminali.

Un conflitto, come sempre accade, in cui si contrappongono accuse reciproche in merito a chi ha sparato il primo colpo. Da un lato Zelensky, il quale in occasione dell’incontro con Trump ha denunciato venti violazioni di cessate il fuoco da parte dei russi (non risparmiando insulti a Putin), e dall’altra la portavoce del Ministro degli Esteri moscovita che ricorda la strage di russi ad Odessa del 2 maggio 2014 (ad opera dei nazionalisti di Azov), la violazione degli accordi di Minsk da parte dell’Occidente (non allargamento a Est della Nato) e la necessità di “denazistizzare” il nemico.

Uno Stato che rispetta i suoi cittadini, non considerandoli sudditi, dovrebbe garantire il pluralismo dell’informazione: offrire un quadro oggettivo di quanto accade dentro e fuori il Paese, a prescindere dalle scelte strategiche attuate dal governo di turno. La censura, il non fare circolare opinioni e notizie, garantisce il quieto vivere di chi governa e sviluppa, al contempo, l’ignoranza collettiva.

Il tifo, in politica e nel giornalismo, necessita solamente di qualche slogan condito da poche frasi fatte; non richiede conoscenza dei fatti e neppure analisi geopolitiche. Confrontarsi senza censure, a prescindere dalle opinioni individuali, è parte di quella libertà garantita dalla Costituzione repubblicana, ma per favorire il dialogo occorre la libertà di stampa. 

Alle dispute calcistiche si abbinino pure i cori da stadio, ma alla politica deve invece affiancarsi quella serietà di analisi che fa la differenza tra governare una nazione, e curare gli interessi di una ristrettissima casta soggetta alle forti pressioni delle lobby.

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