Parlamento "modello" Regioni, panico tra peones e lacchè
07:00 Mercoledì 07 Maggio 2025Nei corridoi di Camera e Senato cresce la preoccupazione: con la nuova legge elettorale che ha in testa Meloni per molti mantenere lo scranno sarà impossibile. Si salvano giusto i capilista, gli altri devono andare a caccia di preferenze. Ecco come
Riforma della legge elettorale, è partito il conto alla rovescia. Così pare, specie per quanto riguarda il termine della legislatura, visto che con ogni probabilità il voto per il rinnovo del Parlamento sarà anticipato a giugno 2027 (tre mesi prima della scadenza naturale) per non interferire con la successiva sessione di bilancio e l’approvazione di quella che un tempo si chiamava “finanziaria”. E magari farlo coincidere con il voto amministrativo delle grandi città: Roma, Milano, Napoli, Bologna e, ovviamente, Torino. Una scadenza anticipata che non troverebbe grandi ostacoli, neppure quelli di natura “corporativa” giacché sarebbe comunque garantita la pensione a deputati e senatori in carica.
Se ne parla nei corridoi di Montecitorio e di Palazzo Madama, si fanno trapelare sui media ipotesi per testarne le reazioni, è l’oggetto del chiacchiericcio nella “bolla” politica del centro di Roma, dove peones e gregari si esercitano a comprenderne gli eventuali effetti sul loro destino personale (“Come faccio ad essere rieletto?”, “A chi dovrò affidarmi stavolta?”). Insomma, il dibattito sulla nuova legge elettorale – un classico di ogni mandato – segna politicamente l’inizio della fase discendente della legislatura, con tutto ciò che ne consegue in termini di qualità dell’azione di governo. Ne parleremo magari in un’altra occasione.
Qui, invece, è interessante valutare gli effetti delle modifiche all’attuale sistema elettorale, quello per intenderci che prevede parlamentari eletti nel 63% dei casi con il sistema proporzionale a liste bloccate e nel 37% dei casi con i collegi uninominali con candidati di coalizione. Abbiamo scritto eletti, quando in realtà sarebbe stato più corretto usare la parola “nominati”: come è noto, infatti, le liste bloccate assegnano ai leader nazionali di ciascun partito la facoltà di scegliere uno ad uno i parlamentari lungo tutto lo Stivale; gli stessi collegi uninominali, poi, sono di dimensioni talmente ampie che il famoso rapporto fra candidato e territorio viene in secondo piano rispetto ai voti dei singoli partiti che ne sostengono la candidatura, non essendo previsto il voto disgiunto.
E allora la riforma di cui si sta parlando interviene proprio su questo aspetto: trovare una modalità per riassegnare ai cittadini la scelta dei propri rappresentanti, cosa di per sé auspicabile. O quantomeno per farlo intendere. Ad intestarsi questa battaglia è Giorgia Meloni, che ancora una volta gioca d’anticipo (anche) rispetto ai suoi alleati di governo. Lo fa naturalmente anche per interessi di bottega, visto che ha l’indubbio vantaggio di poter massimizzare l’ampio consenso di cui gode presso l’opinione pubblica, senza doversi far carico con i propri voti degli alleati di ieri, oggi e – chissà – di domani.
Come? Replicando a livello nazionale il sistema che ha dimostrato di funzionare nelle Regioni: e dunque, coalizioni che si presentano unite alle elezioni attraverso l’indicazione di un candidato premier, in un colpo solo mettendo in secondo piano i suoi junior partner Matteo Salvini e Antonio Tajani e seminando il panico nel variegato campo dei suoi oppositori, divisi tra Elly Schlein, Giuseppe Conte e, forse, Carlo Calenda. Proporzionale puro (con sbarramento minimo, si dice al 2%) per evitare di dover trattare l’assegnazione dei collegi uninominali con gli alleati e, in quanto partito più grande, doversene far carico. A titolo di esempio, la Lega alle elezioni del 2022 ha ottenuto, specie al Nord, molti più seggi rispetto alla sua reale forza elettorale, e lo stesso dicasi per Forza Italia in alcune regioni, in particolare al centro. Premio di maggioranza fino al 55% dei seggi da assegnare ai partiti della coalizione vincente, a patto che insieme superino una soglia minima, ipotizzata al 40% (è lo stesso meccanismo delle Regioni, che però assegnano il premio alla prima coalizione, indipendentemente dalla percentuale complessiva); solo capilista bloccati, cioè indicati dai partiti, e preferenze per tutti gli altri seggi da assegnare.
In particolare, è quest’ultimo aspetto ad agitare gli animi dei parlamentari uscenti e dei vari capataz locali: posto che i capilista, soprattutto nel caso non remoto di candidature multiple dei soli leader nazionali dei partiti per trascinarne il consenso, saranno bloccati, il “mercato” elettorale si apre dalla cosiddetta seconda posizione in giù. Con la necessità vitale per i partiti, anche a livello locale, di proporre liste forti, per evitare risultati deludenti capaci di eleggere, forse, il solo capolista. E con il rischio per gli attuali uscenti di veder intaccate le loro rendite di posizione, spesso frutto di gestioni personalistiche e autoreferenziali e dei soli rapporti romani nella “bolla” di cui parlavamo.
In uno schema del genere, ancora una volta, a beneficiarne saranno le leader dei due partiti maggiori, che potranno nei rispettivi campi fare incetta di elettori, essendo le uniche a poter garantire spazi (leggasi: seggi) ad un ceto politico che, si spera, dovrà necessariamente tornare a confrontarsi direttamente con i cittadini e ad essere rappresentativo di interessi legittimi che provengono da ogni angolo d’Italia. Bipartitismo di fatto, anche senza Premierato.