Risotto alla Verdi

Sei concorrenti, ospiti di un programma televisivo, siedono di fronte ai giudici in attesa che venga svelata la ricetta con cui dovranno cimentarsi ai fornelli. La competizione prevede che sotto ad alcuni box, uno per ogni “aspirante chef”, vi siano vinili di opera lirica: ai 33 giri sono abbinati i vari piatti da preparare in gara.

A turno, i concorrenti scelgono la loro scatola, dimostrando però di non conoscere nessuna delle opere liriche assegnate. Lo stupore dei giudici, affermati cuochi stellati, è evidente durante tutto il segmento televisivo, ma la loro espressione mal cela incredulità quando arriva il turno del box contenente la Traviata e, soprattutto, in seguito alla prevedibile domanda che accompagna la sua aggiudicazione: “Sapete chi era Giuseppe Verdi”. Nell’imbarazzo generale, i sei fanno scena muta e, dopo qualche secondo, solamente un giovane prova ad azzardare la risposta: “Verdi ha scritto l’Inno d’Italia”. 

I conduttori della trasmissione sono quindi costretti a fare una breve descrizione biografica di Verdi, e ad aggiungere una postilla per attribuire la paternità del nostro Inno a Goffredo Mameli ed a Michele Novaro. Gli sguardi spaesati dei sei convincono i giudici ad andare avanti nel programma, e con l’occasione cambiare velocemente argomento, per entrare così nel vivo della competizione. 

Purtroppo, non è raro navigare tra i palinsesti tv e imbattersi in scene come quella sin qui descritta. Competizioni e reality sono i contesti in cui è facile misurare il degrado culturale raggiunto dal nostro Paese. I vari ambiti televisivi si caratterizzano esclusivamente per una spietata competizione tra i partecipanti, intrisa di tradimenti e colpi bassi (che garantiscono sempre un sostanziale aumento dell’audience), nonché per il freddo cinismo di giudici e conduttori. Questi ultimi, infatti, sono sempre pronti a redarguire i partecipanti, facendo sovente ricorso a lunghi monologhi moralistici, ma non si fanno scrupolo alcuno quando li eliminano brutalmente dalla competizione. Gare e reality riservano ai concorrenti un duro trattamento ricambiato, solitamente, con frasi che dimostrano un’assoluta sottomissione (sul modello fantozziano “Come è umano lei”).

Il messaggio che raggiunge il telespettatore è deprimente: un insieme di spietate selezioni (accompagnate da manifesto disprezzo per i candidati) che si accompagnano ad ampie dimostrazioni di non conoscenza di quanto insegnato nelle scuole dell’obbligo. L’ultimo strafalcione televisivo, in ordine cronologico, risale a domenica scorsa: alla domanda “Cosa si festeggia il 25 Aprile”, rivolta ad alcuni ragazzi, è calato un angosciante silenzio, spezzato infine dalla risposta shock: “Siamo stati liberati dagli Ebrei”. 

Le autorità della Repubblica, insieme a quelle europee, richiamano sovente l’attenzione dei cittadini sulla strumentale diffusione di fake news, invitando tutti a riconoscerle e a non divulgarle. Impresa molto difficile per svariate ragioni, tra cui la censura di Stato e la fitta propaganda di guerra (costruita solitamente con massicce dosi di retorica e di menzogne sull’avversario): abitudini, di antica tradizione, che purtroppo non rendono molto credibili sia le istituzioni statali che le loro “verità”. Selezionare le notizie, dividendo quelle verosimili da quelle inventate, è operazione resa ancor più complicata dalla banalizzazione della politica, della società, dei fatti esteri: azzeramento del sapere (e della coscienza critica) ottenuto tramite decenni di televisione trash e disinformazione. 

L’abbattimento della Cultura è il frutto di una pianificazione molto efficace avviata all’inizio del nuovo millennio nelle scuole e approdata, rapidamente, in tutti i gangli della società. L’obiettivo di ridurre ulteriormente la memoria storica della nazione, perseguito con tenacia alcuni settori del potere politico-economico, è stato pienamente raggiunto. 

Un popolo senza consapevolezza del passato è manipolabile. Le comunità diventano malleabili a tal punto da dedicare energie per rivendicare il diritto alle telecamere, anziché al welfare, e giungono inevitabilmente a credere che i repubblichini di Salò fossero le vittime della Liberazione, non i carnefici. 

L’assenza di sapere collettivo legittima guerre, secondo il principio che l’aggressore è sempre l’altro; rende credibile la divisione dei popoli del mondo in buoni e cattivi (negazione della geopolitica); decontestualizza le vicende dai fatti storici; consente di imputare (ad esempio) la liberazione dei lager nazisti agli americani, escludendo del tutto i russi (oramai considerati “i nemici”) dal novero di coloro che hanno sconfitto Hitler. Insomma, liberare il cervello dei cittadini da nozioni “inutili” facilita la creazione di uno spazio vuoto e, quindi, adattato per accettare bislacchi revisionismi storici e innumerevoli strumentalizzazioni politiche.

Giuseppe Verdi è l’autore di Fratelli d’Italia, e il 25 Aprile celebra la liberazione dagli Ebrei, mentre le atomiche su Hiroshima e Nagasaki le hanno sganciate i russi. Le camicie nere erano un settore specifico di Pitti Uomo (contraddistinto per i modi gentili e il buon gusto), e Fenestrelle era “un lager per soldati delle Due Sicilie e ne morirono tra stenti 40.000”. Tabula rasa è stata fatta, per cui ora è compito decisamente più facile quello di legittimare guerre sanguinarie: un bel passo avanti rispetto a quel fastidioso passato in cui apprendere era il miglior modo per affrancarsi dalle proprie condizioni sociali. 

Nel caso qualcuno si sia turbato, a causa di queste poche righe, mi scuso invitandolo ad accendere la televisione: pochi minuti e la serenità apatica avrà nuovamente la meglio su ogni cosa.  

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