Riforma elettorale, ne vedremo delle belle
Giorgio Merlo 08:00 Giovedì 08 Maggio 2025
Carlo Donat-Cattin, in epoca non sospetta – a metà degli anni ‘80 dello scorso secolo – già diceva che “la legge elettorale è la madre di tutte le riforme”. Ed aveva profondamente ragione perché gli equilibri politici e la stessa rappresentanza democratica dei vari partiti cambiano a seconda della legge elettorale in vigore in quel particolare momento storico. Certo, non possiamo non registrare un elemento alquanto negativo per la qualità della democrazia e per la stessa efficacia del sistema politico nel suo complesso culminati in questi ultimi tempi. Ovvero, il cambiamento della legge elettorale a seconda di chi governa in quella particolare fase politica. E dico questo dopo aver avuto ben 50 anni di stabilità con la legge elettorale proporzionale disciplinata dalle preferenze multiple. E cioè tutto il periodo della cosiddetta prima repubblica. Dopodiché è subentrata un’altra logica: ogni maggioranza di governo si fa la “sua legge elettorale”.
Ora, uno dei tasselli centrali di una legge elettorale – e soprattutto della futura legge elettorale – è come verrà composta la Camera e il Senato. E cioè, per dirla in termini ancora più chiari, attraverso la prassi delle “nomine” dall’alto oppure, e al contrario, con il metodo della selezione democratica dal basso? Perché attorno a questo nodo si gioca la vera partita politica. E oserei dire anche democratica. E questo per una ragione molto semplice: buona parte dei capi partito continua a blaterare che i parlamentari devono essere eletti dal basso con la scelta diretta da parte dei cittadini e poi, puntualmente, nessuno osa mettere in discussione le fatidiche “liste bloccate”. Con la conseguenza, peraltro scontata, che l’unico criterio che conta è quello della fedeltà assoluta nei confronti del capo partito a scapito di qualsiasi altra valutazione. E cioè, il radicamento territoriale, la competenza specifica, il profilo politico e culturale e la stessa rappresentanza sociale sono tasselli del tutto ininfluenti ed irrilevanti ai fini della candidatura e, quindi della elezione. Perché l’unico ed esclusivo criterio resta quello della ‘fedeltà’ cieca ed assoluta dei candidati nei confronti del capo di turno.
Ora, grazie alla intraprendenza politica del Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, ha ricominciato a fare breccia nel dibattito sulla riforma della legge elettorale il ritorno delle preferenze o dei collegi uninominali sul modello della elezione delle antiche Province, cioè dove la competizione era all’interno dei rispettivi partiti attraverso i collegi. E qui è scattato immediatamente l’allarme rosso tra gli attuali parlamentari perché larga parte di questa nuova ed inedita rappresentanza non ha alcuna dimestichezza con il libero consenso democratico perché, semplicemente, è abituata al criterio della nomina dall’alto da parte del capo partito. E, su questo versante, non si può che salutare positivamente questa possibile e del tutto potenziale ventata democratica e liberale. C’è, però, un limite di fondo che frena il potenziale entusiasmo. Ed è persino troppo semplice da richiamare. E cioè, com’è possibile escogitare un sistema elettorale che rimanda alla libera scelta degli elettori la futura composizione del Parlamento quando esistono, anzi imperversano, i cosiddetti “partiti personali”? Detto con altre parole, possono permettersi i capi dei partiti personali una rappresentanza parlamentare che dipenda esclusivamente e liberamente dai cittadini? Come ovvio, è una contraddizione in sé. E cioè, sin quando esistono i partiti personali difficilmente, anzi quasi scientificamente, non potrà decollare un sistema elettorale autenticamente democratico.
Comunque sia, se dovesse esserci il miracolo del ritorno delle preferenze o di una libera e trasparente competizione tra i candidati nei vari collegi uninominali, ne vedremo delle belle, come si suol dire. A Torino come in Piemonte e nell’intero paese. Non ci resta che attendere….