Repole tira dritto sulla "normalizzazione". Cacciati i padri del Verbo Incarnato
Eusebio Episcopo 07:00 Domenica 08 Giugno 2025Nel presentare il drastico riassetto della diocesi di Torino, l'arcivescovo prova a tranquillizzare clero e fedeli: "Nulla cambia, anche se ci strutturiamo in modo diverso". Intanto i religiosi non allineati al vertice perdono le loro parrocchie
La rassicurante intervista rilasciata dal cardinale Roberto Repole non ha sortito l'effetto desiderato. In uno slalom demagogico tra luoghi comuni e ripetizioni delle parole di Papa Leone (evidentemente, dopo i redditizi librettini sulla “teologia” di Francesco, è necessario riposizionarsi), emerge una stupefacente affermazione sul drastico riassetto (meglio dire il drastico dimagrimento) della diocesi di Torino che in questi giorni è sulla bocca di tutti. Dice il cardinale: «Nulla cambia, possiamo continuare ad essere la Chiesa di Cristo anche se ci strutturiamo in modo diverso». Solo due osservazioni sono emerse fra il clero più avvertito e meno disposto alla narrazione in atto: una dottrinale e una esistenziale. Sicuro che dovremmo essere solo la Chiesa di Cristo e non la Chiesa cattolica, nella quale la Chiesa di Cristo «sussiste»? Eppure, Sua Eminenza dovrebbe aver letto Lumen Gentium! Certi lapsus rivelano la reale teologia dal fumus riformato che anima il cardinale teologo.
Ma a livello esistenziale è ancor peggio e qui emerge tutta la lontananza del Pastore dagli altri pastori e dall’odore della pecora (che non ha mai avuto). Affermare che «nulla cambia» rivela una radicale insensibilità per la vita concreta e reale dei parroci e delle comunità. Del resto, cosa aspettarsi da un Consiglio episcopale composto da persone litigiose e dalla inesistente esperienza pastorale? Per porre rimedio al malcontento che monta, per convincere i riottosi, addolcire gli animi e preparare i malcapitati al peggio è stato dato un contentino con la nomina del “fiandiniano” don Nino Olivero, classe 1951, ordinato nel 1976, a delegato arcivescovile per il clero. Lo attende un corposo cahier de doléances.
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Come lo Spiffero aveva da tempo annunciato è avvenuta l’attesa successione alla Consolata. L’immarcescibile ex cancelliere, monsignor Giacomo Martinacci, che deposta ogni speranza di ricevere lo zucchetto rosso, terminerà il suo incarico di rettore per lasciare il posto a don Sergio Baravalle. L’avvicendamento è del tutto istituzionale, tuttavia, nonostante i limiti, il passaggio sembrerà epocale, sia per il differente tratto umano, sia per la stampella del vicerettore don Andrea Pacini, parroco di S. Agostino che, anche lui deposta ogni aspirazione, si prepara a divenire il dominus incontrastato del Centro. Un ultimo merito però va riconosciuto a monsignor Martinacci, quello di essere riuscito ad aggregare il capitolo metropolitano di Torino a quello del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Pertanto, i nostri canonici diventeranno ipso facto Protonotari apostolici Soprannumerari con il diritto di fregiarsi del titolo di monsignore. Come ebbe a dire il conte Camillo Cavour «un sigaro e un titolo di cavaliere non si negano a nessuno».
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Venerdì sera la chiesa di Maria Madre della Chiesa in via Baltimora era stracolma di fedeli con intere famiglie e bambini per l’incontro – tanto atteso in quanto il vescovo non li ha mai voluti ricevere – con il missus inutiliter ridens don Mario Aversano accompagnato per l’occasione da padre Ugo Pozzoli e da don Alberto Savoldi. Questi, al fine di indirizzare l’andamento della serata, hanno esordito dicendo che si sarebbero letti brani di Vangelo che trattano dell’obbedienza e poi la comunità avrebbe esposto quanto di buono è germogliato in questi anni sotto la guida dei Padri del Verbo Incarnato.
L’escamotage però non ha avuto effetto perché è vero che nei numerosi interventi dei laici e persino dei ragazzi – peraltro pacati, rispettosi e precisi – si sono messi in luce i copiosi frutti di grazia e vita cristiana di questi anni, ma è stato anche chiesto, e ripetutamente, perché la diocesi voglia cacciare i Padri e mettere fine a questa positiva esperienza di vita cristiana. A questa insistente e precisa richiesta – “vogliamo la verità” – il povero Aversano non ha sostanzialmente risposto e, messo alle strette, ha solo detto che è mancata «una certa sintonia» (quale?) con la diocesi e che il vescovo – che si è sempre sottratto al confronto – nel suo discernimento, ha deciso di allontanarli; e alla richiesta di sapere in cosa consistesse la distonia non ha risposto accampando un presunto «segreto». Così alle rimostranze di alcuni fedeli sono rimasti muti e ad ogni intervento si coglieva, sui volti imbarazzati dei tre, tutto il loro disagio. Infatti, a fronte della sincerità e della freschezza delle oneste domande dei fedeli, la figura che hanno fatto è stata penosa, in particolare quando il missus ha annunciato chi verrà a reggere le due parrocchie al posto dei Padri: don Igino Golzio, classe 1949, ordinato nel 1984 e con un radioso futuro dietro le spalle. Così i poveri fedeli, dopo aver mangiato il pane fragrante di vita dispensato loro dai Padri, dovranno accontentarsi di quello stantio dei soliti depressi, perché è chiaro che con l’arrivo di un settantacinquenne prossimo alla pensione si è raschiato il barile.
Dalla Curia nessuna reazione, ma l’impressione è che l’estromissione dei Padri – che si cerca di circoscrivere e silenziare in ogni modo come fatto di ordinaria amministrazione – peserà perché mina la credibilità della Chiesa e perché ha dato la misura di quanto valgano le parole del vescovo e dei “boariniani” al comando sulla sinodalità, sull’ascolto e sul coinvolgimento dei laici. Aspetti questi che dovrebbero preoccupare il consiglio presbiterale che sembra sempre di più, e ora più che mai, ridotto a un organo decorativo e inutile. È stata poi fatta circolare la voce che l’arcivescovo abbia deciso di cacciare i Padri dopo un recente colloquio con il Padre Provinciale del Verbo Incarnato, ma la notizia è falsa in quanto ad essi fu comunicato che se ne sarebbero dovuti andare già a settembre dello scorso anno.