GIUSTIZIA

Bigliettopoli (fantasma): assoluzioni in aula, "condanne" etiche

Le motivazioni della sentenza di marzo: un atto d'accusa morale che per la difesa dimentica due anni di dibattimento. Mai affrontati gli oltre 8mila ticket omaggio. I giudici partono dalla "sportula" del tardo Impero Romano per tentare di salvare l'impianto dei pm

Le motivazioni della sentenza del maxiprocesso denominato Bigliettopoli (pronunciata a marzo 2025 dal tribunale di Torino e rese note ieri) offrono più spunti critici che solide risposte, al termine di un procedimento durato anni e accompagnato da clamore mediatico. La decisione del collegio presieduto dal giudice Paolo Gallo – sei condanne e sette assoluzioni – chiude formalmente un’inchiesta iniziata oltre un decennio fa, ma lascia sul campo un carico pesante di ambiguità, omissioni e valutazioni che sembrano più etiche che giuridiche.

Etica al posto della prova

Nelle 63 pagine di motivazioni, il tribunale ha ribadito che «fare regali a pubblici ufficiali chiamati a rilasciare pareri o autorizzazioni è un’abitudine che dovrebbe semplicemente cessare». Giusto, ci mancherebbe altro. Una presa di posizione che appare però più come un richiamo morale che una valutazione fondata su elementi oggettivi. E qui sta uno dei primi punti critici: la sentenza, come rilevato dalla difesa di Giulio Muttoni (patron della Set Up Live), pare mancare proprio di quel necessario ancoraggio a fatti e prove, basandosi invece su giudizi di natura prevalentemente deontologica.

Il tribunale attinge le proprie argomentazioni alla notte dei tempi, facendo una breve disquisizione sulle regalie ai funzionari partendo dalla “sportula” del tardo Impero Romano (che pare fosse addirittura una specie di obbligo per il cittadino). Dopo «una lunga evoluzione storico-politica» si arriva ai giorni nostri, dove la Costituzione sancisce che «i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della nazione» e quindi devono essere imparziali e devono astenersi da chiedere o accettare denaro o altre utilità. Si richiamano norme di un decreto legislativo del 2001 e del “codice di comportamento” del 2013 sollecitando una «radicale revisione critica» delle policy aziendali e delle norme amministrative interne che tollerano gli omaggi. Ma resta assente un’analisi puntuale e concreta di se e come tali regali abbiano effettivamente influito sulle decisioni amministrative o addirittura integrino gli estremi della corruzione. Per giungere alle loro conclusioni, i giudici richiamano le risposte date dallo stesso Muttoni, al quale riconoscono «una lodevole schiettezza», nel corso di un interrogatorio reso agli investigatori nel 2018.

La Corte richiama la sportula dell’Impero Romano, la Costituzione, il codice di comportamento dei pubblici dipendenti e perfino la necessità di una «radicale revisione critica» delle policy aziendali e delle norme amministrative interne che tollerano gli omaggi. Ma resta assente un’analisi puntuale e concreta di come e se tali regali abbiano effettivamente influito sulle decisioni amministrative o integrato gli estremi della corruzione.

La difesa ignorata

Il dato più contestato dagli avvocati difensori è proprio questo: le motivazioni della sentenza sembrano ignorare due anni di dibattimento. Nessuna delle prove a discarico – «massicce», secondo l’avvocato Fabrizio Siggia del foro di Roma – è stata presa in considerazione, neppure per contestarne la rilevanza. Dai criteri di assegnazione degli oltre 8.000 biglietti omaggio distribuiti nel corso degli anni ad autorità, funzionari, giornalisti, magistrati e personalità, ai dettagli sulle prassi consolidate nel settore dell’organizzazione di eventi: nulla ha trovato spazio nell’impianto motivazionale della sentenza.

Non sorprende dunque che la difesa parli apertamente di una sentenza «parziale e non esaustiva», come dichiarato dall’avvocato Siggia, e che alla fine della lettura si abbia la sensazione di una difesa “contumace”. Il processo, in sostanza, non ha mai realmente affrontato il cuore della questione: il sistema degli omaggi, neppure per accertarne la funzione di strumento di pressione o addirittura di corruzione. Chissà come mai.

La prescrizione poi ha fatto il resto: l’episodio contestato a Muttoni (otto biglietti di un concerto di Tiziano Ferro dati a un funzionario dei Vigili del fuoco e due a una dipendente della Prefettura, con promessa di assunzione) è finito prescritto. L’esito è stato quello di un proscioglimento che, pur formalmente corretto, ha permesso di evitare un confronto che avrebbe potuto rimettere in discussione l’intero impianto accusatorio.

Sentenza "cerchiobottista"

L’impressione finale, amaramente condivisa da molti osservatori, è che la decisione del tribunale abbia cercato un equilibrio più politico che giuridico: da un lato l’assoluzione (o la prescrizione) degli imputati principali come Muttoni e Roberto De Luca; dall’altro il tentativo di non sconfessare del tutto il lavoro della procura, già messa in difficoltà dal crollo dell’impianto accusatorio e dalle vicende che hanno coinvolto il pm Gianfranco Colace (sanzionato dal Csm con il trasferimento al tribunale civile di Milano la e perdita di un anno di anzianità professionale).

Non si è trattato, come era stato prefigurato, di un processo sugli oltre 8.000 biglietti gratuiti né su un ipotetico sistema di scambio sistematico di favori tra organizzatori di eventi e funzionari pubblici. Per espressa scelta del presidente Gallo, quel tema non è mai entrato davvero nel merito del dibattimento.

Le parole di Muttoni

Emblematiche le stesse parole di Muttoni, riportate nelle motivazioni, pronunciate: «Se volete provo a non dare più biglietti alla Commissione di vigilanza per tre mesi e vediamo cosa succede: secondo me non facciamo più concerti». Una frase che i giudici sembrano leggere come indizio di un sistema opaco, ma che la difesa avrebbe voluto vedere contestualizzata nel mondo reale dello spettacolo e della gestione degli eventi.

Una chiusura che non convince

Con questa sentenza si chiude definitivamente un processo controverso: nessuna possibilità di appello, nessun giudice che possa rivedere o confutare le motivazioni depositate, nessuna ulteriore possibilità per la difesa di vedere valorizzato il proprio lavoro. Resta l’amarezza, come dichiarato dallo stesso Muttoni: «So di essere una brava persona e di non aver mai fatto niente di male nella mia vita».

Al termine di dieci anni di indagini, due anni di dibattimento e 63 pagine di motivazioni, Bigliettopoli lascia un senso di incompiuto e di giustizia solo parzialmente servita: un processo che, nella sostanza, non è mai davvero entrato nel vivo delle questioni che aveva sollevato.