CARTA PESTA

La Stampa sotto l'egida Agnelli. Elkann prepara lo "spezzatino"

Il rampollo vuole disfarsi dei giornali ma ormai è chiaro che non riesce a vendere in blocco Gedi. Da qui lo spacchettamento, con Repubblica a un "label" internazionale (trovarlo) e la vecchia Busiarda messa al riparo sotto la Fondazione intitolata al trisavolo

John Elkann vuole uscire dal pantano editoriale, e non è un mistero. La galassia Gedi, con Repubblica e Stampa in testa, è un fardello che la famiglia Agnelli-Elkann non intende più portare. Ma la strategia per disfarsi di questi asset, messa a punto con il presidente Paolo Ceretti (ex Fiat ma con trascorsi in De Agostini) e dall’ad Gabriele Comuzzo (il manager che ha seguito la transizione digitale con alle spalle la guida della Manzoni), è un gioco di equilibrismo: vendere tutto, ma non in blocco vista l’assenza di compratori disposti a caricarsi l’intero badò. E soprattutto farlo con stile, cercando di scontentare il meno possibile le redazioni, facendo attenzione a non mettere in allarme il sistema politico. E, se ci scappa, titillare l’orgoglio sabaudo. Perché se Repubblica è un ginepraio inestricabile, la Stampa è una patata bollente che Elkann non può permettersi di mollare senza salvare la faccia.

Un acquirente internazionale

Il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari e Carlo Caracciolo ha una redazione che si considera una casta, con la pretesa di scegliersi l’editore come si sceglie un abito su misura. Elkann lo sa: cedere Repubblica a un compratore qualunque rischierebbe di scatenare una rivolta interna, con scioperi e titoloni al vetriolo. Per questo, la strategia di Exor, la holding degli Agnelli, punta su un acquirente di respiro internazionale, capace di dare lustro e garanzie al giornale. Almeno a livello di immagine. Si parla di Vivendi, il colosso francese guidato da Vincent Bolloré, che potrebbe offrire quel “label” internazionale tanto caro a Jaki.

Ma non solo: voci recenti, raccolte dal Foglio, accennano a un interesse dall’Egeo, con il gruppo greco Antenna di Theodore Kyriakou, magnate dei media con un debole per Trump e il Qatar. Un’ipotesi che, se confermata, farebbe storcere il naso a più di un “repubblicano”, ma che testimonia la ricerca di un partner che non sfiguri accanto all’Economist, di cui Elkann è primo azionista. Intanto, la cordata italiana guidata da Claudio Calabi, ex manager di Rcs e Sole 24 Ore, al netto delle smentite di rito, dopo alcuni abboccamenti pare al momento in standby nonostante abbia raccolto l’interesse di alcuni partner. Ricorre il nome di Andrea Pignataro che però a dispetto del suo ingente patrimonio non è ancora riuscito a scrollarsi di dosso lo stigma che certi salotti buoni gli hanno affibbiato.

La Stampa: un'uscita sabauda

Se Repubblica è un problema “politico”, la Stampa è una questione di cuore e storia. Elkann non può permettersi di abbandonare il quotidiano torinese, storico baluardo della famiglia Agnelli, senza un’operazione che salvi le apparenze. Come il cugino di Largo Fochetti, in via Lugaro sono alle prese con una diffusione in picchiata, conti in proporzione persino peggiori e una struttura anchilosata: quasi 200 tra giornalisti e poligrafici, uno stato maggiore con troppi generali, una prima linea zeppa di colonnelli e una catena di comando lunga come un romanzo russo. Per non dire della identità forse irrimediabilmente smarrita, nell’inseguire effimere ambizioni assecondando velleitari protagonismi personali, infarcendo le pagine di firme, sedicenti grandi e prestigiose, estranee alla tradizione del giornale e al suo legame con la città. Una svolta pagata cara, in tutti i sensi. I costi sono insostenibili per un quotidiano ormai confinato all’ambito regionale, i tagli saranno inevitabili.

Il nodo degli organici troppo pesanti non riguarda ovviamente solo Elkann, ma tutti gli editori, alle prese con strutture ereditate da stagioni in cui i bilanci erano un dettaglio trascurabile. Da qui una manovra silenziosa ma decisa per spingere il governo a rifinanziare la legge sull’editoria e agevolare pensionamenti e uscite. Palazzo Chigi, che certo non nutre grande simpatia per un sistema dell’informazione spesso percepito come ostile, aveva finora mostrato scarsa disponibilità. Ma ora qualche spiraglio si apre: perché, pur senza voler fare regali a Elkann o Cairo, anche Meloni non può ignorare le attese di editori più vicini al suo mondo, come Angelucci o la cavaliera Marina Berlusconi.

La soluzione? Trasferire la proprietà della testata a una fondazione, a sua volta partecipata da altre fondazioni con una chiara vocazione editoriale, dove la Fondazione Agnelli non solo svolgerebbe il ruolo di garante, ma rappresenterebbe, già nel nome, la continuità con la tradizione e la prova che non si tratta di un disimpegno della famiglia.

L’idea, rivelata dai vertici qualche giorno fa in un colloquio con alcuni manager, sarebbe quella di cedere la gestione operativa a terzi, mantenendo però un piede dentro, con una partecipazione nient’affatto simbolica. Un’uscita di scena che suoni come un nobile impegno per “assicurare un futuro glorioso” al giornale, sostenuto da un patrimonio che ne sostenga le proiezioni nel tempo. Ma il trucco è evidente: scaricare le incombenze, evitare il bagno di sangue finanziario e tenere alto il vessillo di casa Agnelli.

L’ultimo Gedi

La situazione economica di Gedi è un disastro, e non serve un commercialista per capirlo. In quattro anni, il gruppo ha accumulato 166 milioni di perdite, con un valore sceso dai 207 milioni del 2020 ai miseri 71,8 milioni attuali, grazie alla rinuncia di Exor a un credito di 40 milioni, che ha anche alleggerito l’indebitamento. Il 2024 si è chiuso con ricavi in forte calo: 386,8 milioni di euro contro i 472,8 del 2023 (-86 milioni, oltre il -18%), con flessioni diffuse su tutte le aree (diffusione, pubblicità, prodotti opzionali). Il margine operativo è tornato positivo a +3,9 milioni (era -9,4), ma solo grazie a componenti straordinarie: plusvalenze per 9 milioni derivanti dalle cessioni. Permangono rischi strutturali: mezzi propri inferiori a un quarto delle passività correnti e a un settimo delle passività complessive; liquidità (24,4 milioni) largamente insufficiente a coprire i debiti finanziari a breve (74 milioni). I flussi operativi sono stati negativi per 34,5 milioni, coperti solo in parte da quelli finanziari (+28,5 milioni) grazie al supporto di Exor, che continua a finanziare Gedi per 149 milioni. Il bilancio espone vulnerabilità: 229 milioni di immobilizzazioni immateriali, 13 milioni di imposte anticipate legate alla produzione di utili futuri, 13 milioni di altre partecipazioni e 28 milioni di diritti d’uso.

Le voci di Ceretti

Paolo Ceretti, nominato presidente di Gedi ad aprile 2025, è l’uomo incaricato di sbrogliare la matassa. Exor ha già ricevuto “numerose manifestazioni di interesse”, ma nessuna è andata in porto. Una precisazione che però non ha convinto i comitati di redazione del gruppo. I Cdr hanno chiesto a Exor una chiara presa di posizione sul reale intento di uscire dal settore editoriale: com’è evidente la smentita di Exor non esclude affatto che trattative siano in corso. Per questo il coordinamento dei Cdr di Gedi sollecita la proprietà a chiarire se intende cedere tutto o parte del gruppo.

Glocal addio

Il disimpegno di Exor dai giornali è ormai un fatto. Dopo la vendita di gran parte delle testate locali – sette quotidiani del Nord Est a Nem, diventati con Luca Ubaldeschi una specie di rsa dei pensionati della Stampa – l’ultimo atto è stata la cessione della Provincia Pavese al Gruppo Sae, guidato da Alberto Leonardis, che aveva già rilevato La Nuova Sardegna, Il Tirreno, Gazzetta di Modena, Gazzetta di Reggio e la Nuova Ferrara. Anzi, penultimo, visto che prossimo ad essere ceduta sarà La Sentinella del Canavese. Questo quadrisettimanale, nato nel 1893 a Ivrea, cuore pulsante dell’Olivetti durante il boom economico, è un unicum nel panorama editoriale: non un quotidiano, ma un periodico che esce quattro volte a settimana (lunedì, mercoledì, venerdì e sabato), con una tiratura complessiva di poche migliaia di copie, una redazione sovradimensionata rispetto alle esigenze attuali e un passato glorioso legato alla storia industriale di Ivrea. Un passato però troppo oneroso.

Scatta lo showdown

Alla fine, il destino sembra segnato. L’avventura editoriale degli Agnelli-Elkann si chiude in modo graduale ma inesorabile. Dopo aver smontato il piccolo impero delle testate locali Finegil, ora si prepara la fase finale. Elkann cerca un’uscita elegante, fatta di paraventi (la Fondazione) e bandiere straniere (Vivendi o Antenna Group), ma la realtà è quella di un addio a un settore che non fa più parte della strategia né del cuore della famiglia. La partita è aperta, e il prossimo capitolo potrebbe riservare sorprese. Ma una cosa è certa: il tempo delle vacche grasse è finito. (2 - continua)