VERSO IL 2027

Meloni vuole il perdente "ideale". Marrone scalda i muscoli a Torino

Al netto della propaganda, il centrodestra sa che espugnare Palazzo Civico è impresa improba, quasi impossibile. Giorgia prima che donna di governo è leader di partito: secondo la sua logica l'assessore regionale è perfetto per trainare FdI

Sebbene Torino non sia mai stata una delle Stalingrado d’Italia – come la lombarda Sesto San Giovanni o Collegno e Grugliasco della “cintura rossa” – il capoluogo piemontese resta comunque una fortezza progressista inespugnabile. Cinquant’anni di dominio progressista – dal “decennio della follia” di Diego Novelli (1975) alla parentesi centrista, con giunte brevi e traballanti, fino al ritorno del centrosinistra con Valentino Castellani nel ’97 – non si cancellano facilmente. Sperare di espugnarla oggi è come giocare a scacchi con un matto in tre mosse già scritte. Lo pensano tutti, nei corridoi romani e nei tinelli subalpini dei partiti di governo. Ma nessuno lo dirà mai.

"Possiamo vincere" (come no)

Il refrain ufficiale, da qui alla vigilia delle urne, sarà un coro unito: “Possiamo vincere”. Eppure, la consapevolezza è palpabile: anche contro un avversario come Stefano Lo Russo – il sindaco uscente del Pd, eletto nel 2021 con il 59,23% al ballottaggio, uno dei leader locali più deboli e privi di carisma degli ultimi trent’anni – la partita appare improba, al limite dell’impossibile. Il grigio Lo Russo, figlio della cooptazione correntizia del Pd, ha riconquistato la città dopo la scombiccherata incursione grillina di Chiara Appendino e della ciurma di scappati di casa, ma fatica a imprimere un segno forte e i suoi indici di gradimento sono in picchiata.

Perdere ma non perdersi

In questo scenario, le forze della coalizione – Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia – iniziano a ragionare non su come conquistare Palazzo Civico, ma sull’identikit del candidato “perdente” ideale. Non perché manchi ambizione, ma per una logica spietata: persa per persa, tanto vale non perdersi. Che, nella visione di una certa destra oggi dominante, significa preservare l’identità, premiare la militanza e non disperdere energie in una battaglia disperata.

Dimentichiamoci, dunque, di un fantomatico “schema piemontese” secondo cui Torino andrebbe a FdI, Novara ai salviniani, Alessandria agli azzurri di Tajani e Cuneo a un civico. Al più è un’aspirazione dei capetti domestici, certo, che contano quanto un due di picche. A differenza del centrosinistra, dove i confronti locali sono struggenti e spesso degenerano in psicodrammi, è il “tavolo nazionale” a dettare legge sulle candidature. E i trascorsi di Milano e Roma – con candidati “situazionisti” e accordi last-minute – insegnano che, sui capoluoghi di regione, la voce dei luoghi conta poco.

Il partito nazione

Qui entra in scena il vero motore della scelta: la logica di Giorgia Meloni, che non è solo premier o “donna delle istituzioni”, ma leader di partito fino al midollo. Un partito che ha fondato e portato dalle percentuali marginali – il 4,4% alle politiche del 2018 – al 26% nel 2022 e al 28,8% alle europee del 2024. Una crescita esponenziale, la terza più rilevante nella storia dell’Europa occidentale post-bellica, il cui motore sono anzitutto gli uomini-macchina. Per Meloni, la scelta del candidato non è mai solo una questione di “chi può vincere”, ma di “chi rafforza il partito”. E nella sua testa il partito è il “partito-nazione”. È una logica spietata ma, dal suo punto di vista, persino lungimirante: le amministrazioni cambiano, il radicamento sul territorio porta frutti per più stagioni.

Di fronte all’alternativa tra un esponente storico, coerente, “marchiato” e un civico moderato, meno ideologico e magari con più chance di vittoria, Meloni sceglie il primo novanta volte su cento. Premiare la fedeltà significa mobilitare la base, formare quadri, creare narrazione. Un civico può portare una poltrona effimera, ma rischia di diluire l’identità; perdere con un proprio militante, invece, rafforza il brand, soprattutto in città come Torino, dove il centrodestra è minoranza strutturale.

Miglior perdente

Secondo questa strategia di costruzione partitica, non di conquista elettorale mordi-e-fuggi, il candidato ideale prende forma: Maurizio Marrone, 43 anni, assessore regionale alle Politiche sociali con una solida base a Torino. Marrone non è un amministratore qualunque: è l’idealtipo dell’homo melonianus. Corvè nelle organizzazioni giovanili e universitarie, entrato in Alleanza Nazionale nel 1997 e cresciuto nella “generazione Atreju”, uomo di disciplina ferrea, mai pentito delle sue posizioni identitarie e divisive, sempre in linea con la leader. Prima esperienza con involontario incidente nel servizio d’ordine al comizio di Gianfranco Fini a Torino per sostenere Raffaele Costa a sindaco: piazzo una transenna su un piede di Daniela, all’epoca first lady del capo di An. Imberbe quindicenne non l’aveva riconosciuta.

Meloni è stata testimone al suo primo matrimonio con Augusta Montaruli, oggi deputata FdI, anche lei della fiamma magica. Incarna la destra dai tratti sociali con battaglie su natalità, famiglia e periferie; accetta ruoli minori pur di servire il partito; difende valori “non negoziabili” come la vita nascente e la sicurezza. Ha scalato partendo dalla gavetta: consigliere di circoscrizione nel 2006, capogruppo Pdl in Comune nel 2011 – il più votato del centrodestra –, consigliere regionale nel 2014 e 2019, assessore regionale dal 2020 con deleghe pesanti.

Figlio dell'establishment

Unisce al pedigree politico l’estrazione familiare nell’establishment subalpino, il che non guasta. Suo padre è Virgilio Marrone, ex direttore generale di Ifi, la holding degli Agnelli confluita con Ifil nell’attuale Exor. È stato uno degli uomini più vicini all’Avvocato, per il quale curava anche aspetti organizzativi delle riunioni dell’Accomandita; ha sempre lavorato per gli Agnelli fin dagli esordi, assistente di Gianluigi Gabetti. E con Gabetti e Franzo Grande Stevens, nel 2005, è stato il regista dell’equity swap che consentì alla Sacra Famiglia di mantenere la proprietà della Fiat. Del figlio ha seguito da una distanza vigile la carriera politica, evitando di intromettersi anche quando non ne condivideva contenuti e soprattutto metodi “muscolari”; ciò non gli ha impedito però di intervenire quando il giornale di casa aveva iniziato a strapazzarlo (memorabile un incontro con l’allora direttore Mario Calabresi alla presenza di Alain Elkann, padre di John).

Garbato ma noin moderato

Marrone, a dispetto dei toni garbati e sempre a modo, non è un moderato. È polarizzante. Ma è proprio questo che serve a FdI: non vincere, ma “(r)esistere” con forza a Torino. L’esperimento del 2021 con Paolo Damilano, imprenditore civico appoggiato da tutto il centrodestra, agli occhi dei meloniani è stato un fallimento strategico: 38,9% al primo turno, 40,77% al ballottaggio, ma con FdI e Lega ridotti al 10,47% e 9,84% in città. Con la sconfitta si è persa pure l’anima, dicono. Con Marrone, FdI punta al contrario: quasi certamente perdere, ma rafforzare il partito. E seminare per far germogliare un futuro più promettente. Alle europee 2024, FdI è già al 22% a Torino, il doppio rispetto al 2021. La polarizzazione paga in termini di consenso identitario.

La solita manfrina

Faranno manfrina, diranno “stiamo valutando”, infarciranno le loro (inutili) interviste con i soliti “è prematuro”. Forza Italia ha già buttato lì a muzzo la solita Claudia Porchietto e, per non indispettirlo, l’assessore Andrea Tronzano. La Lega fingerà di frenare, ma come ha detto l’altro giorno Fabrizio Ricca rivolgendosi ai suoi colleghi della Sala Rossa “tranquilli, nessuno seduto qui a questo tavolo deciderà né il nome né come si arriverà a sceglierlo”.

Roma ha già deciso. L’annuncio ufficiale arriverà a tempo debito, a ridosso delle urne, come da tradizione centrodestra: niente primarie, niente psicodrammi. Maurizio Marrone sarà il candidato. Non perché può vincere. Ma perché rappresenta il primato del partito (non tanto della politica). Faranno leva sulla sua esperienza amministrativa – da consigliere comunale e assessore regionale – e sulla convinzione che polarizzare lo scontro sia meglio di un civico “incolore”. Che porti frutti o no, rafforzerà FdI sul territorio. E in politica, per Meloni, è l’unica vittoria che conta a lungo termine.

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