Nel ricordo la verità sulle foibe

Istria, Venezia Giulia e Dalmazia sono territori legati all’Italia sin dal II secolo a.C. quando divennero colonie Romane. Dopo il crollo dell’Impero, l’occupazione dei Goti e il controllo di Bisanzio, quest’area geografica venne unificata sotto le insegne del Leone di San Marco nel ‘400. In seguito al trattato di Campoformio del 1797 Napoleone Bonaparte, all’epoca “Comandante in Capo dell’Armata d’Italia” la cedette all’Impero Austro-Ungarico. La persecuzione degli Italiani, come pochi sanno però, cominciò proprio in quegli anni. Gli Asburgo, intimoriti dalle spinte irredentiste e risorgimentali, attuarono una vera e propria deitalianizzazione, tramite la sistematica “slavizzazione” di queste terre. Vennero rimossi dagli impieghi pubblici e giudiziari tutti gli Italiani, vennero chiuse le scuole e rimossi dal loro incarico tutti i maestri. Una vera e propria sostituzione etnica. Nel 1920 con il Trattato di Rapallo, dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, cui parteciparono da volontari migliaia di istriani e dalmati , furono annesse al Regno d’Italia, la Venezia Giulia, l’Istria, la città di Zara in Dalmazia, le isole di Cherso e Lussino, Lagosta e Pelagosa. Nel 1924 fu annessa anche Fiume (Rijeka) , dopo essere stata teatro dell’impresa dannunziana del settembre 1919. Il sogno italico però durò poco più di vent’anni. Durante il Ventennio, il governo Fascista, tentò di Italianizzare nuovamente queste terre, con alcuni provvedimenti quali: il divieto dell’insegnamento della lingua Slava nelle scuole, l’obbligo dell’utilizzo della sola lingua italiana nell’amministrazione pubblica e l’italianizzazione all’anagrafe di tutti i nomi e cognomi (con scarsi risultati). Provvedimenti visti oggi come illiberali ma che all'epoca erano assai comuni in Europa, venendo applicati, fra gli altri, anche da paesi come la Francia o il Regno Unito, oltre che dalla stessa Jugoslavia.

8 Settembre 1943, l’Italia firma l’armistizio, il Regio Esercito si sfalda e immediatamente avvengono le prime violenze e i primi massacri per mano dei Comitati Popolari di liberazione Jugoslavi, ovvero i partigiani comunisti di Josip Broz, nome di battaglia “Tito”. Il desiderio di vendetta, dopo anni di dominio fascista era grande. Tribunali improvvisati emisero migliaia di condanne a morte. Le vittime furono non solo rappresentanti del regime fascista e dello Stato italiano, ma anche persone estranee alla politica. Borghesi, liberali, socialisti, cattolici, sacerdoti, liberal-democratici, donne, anziani e bambini. Bastava non essere comunisti per essere giustiziati come nemici del futuro Stato comunista jugoslavo che s'intendeva creare. La maggioranza dei condannati veniva torturata e gettata nelle foibe, grandi inghiottitoi, pozzi naturali, profondi decine di metri, tipici della regione Carsica e dell’Istria. Il modus operandi era terribile. Le uccisioni avvenivano in maniera spaventosamente crudele. I condannati venivano legati l’un l’altro con un lungo fil di ferro stretto ai polsi, e schierati sugli argini delle foibe, dopo di che, veniva aperto il fuoco soltanto contro i primi tre o quattro della catena, i quali, precipitando nell’abisso, morti o gravemente feriti, trascinavano con sé gli altri sventurati, condannati così a sopravvivere per giorni sui fondali delle voragini, insieme ai cadaveri dei loro compagni, tra sofferenze inimmaginabili.

Soltanto nella zona triestina, tremila sventurati furono gettati nella foiba di Basovizza (alcune sedi dell’Anpi negano ancora oggi la sua esistenza) e nelle altre foibe del Carso. Subito dopo il ripiegamento dei partigiani comunisti, conseguente all’avanzata nazista, vennero disposte le prime ispezioni delle foibe, che riportarono alla luce i primi corpi. La Repubblica di Salò diede ampio risalto a questi ritrovamenti, che suscitarono una forte impressione nell’opinione pubblica. L'enfasi data ai ritrovamenti, alimentò tuttavia la reazione negazionista con cui le sinistre italiane respinsero per molto tempo la fondatezza di un crimine denunciato per la prima volta dal nemico fascista.

Nell’autunno ‘44, quando i tedeschi si ritirarono dalla Dalmazia, ripresero i massacri. La città di Zara, dopo mesi di bombardamenti alleati e 4000 morti fra i civili, venne occupata il 1° Novembre dai comunisti titini. In breve tempo vennero giustiziati circa 200 Italiani, fucilati o annegati direttamente in mare, legando i corpi a dei macigni. Nella primavera del ‘45, le truppe di Tito occuparono Trieste, Gorizia e l’Istria scatenando tutta la loro furia omicida. Un vero e proprio genocidio, una pulizia etnica voluta da Tito per eliminare dal futuro regime comunista Jugoslavo qualsiasi potenziale oppositore. A Gorizia, Trieste e Pola le violenze cessarono solamente con l’arrivo degli alleati, nel Giugno del ‘45. A Fiume gli alleati invece non giunsero mai e le persecuzioni continuarono imperterrite. I massacri cessarono solamente il 10 Febbraio 1947, dopo che alla conferenza di pace di Parigi, venne fissato il confine fra l’Italia e la Jugoslavia. Il numero totale di italiani infoibati e massacrati nei lager di Tito tra il ‘43 e il ‘47 fu di circa 20mila persone.

Con la ratifica del trattato, l’Italia consegnò alla Jugoslavia numerose città e borghi a maggioranza italiana, rinunciando per sempre a Zara, alla Dalmazia, alle isole del Quarnaro, a Fiume, all’Istria e a parte della provincia di Gorizia. Il trattato inoltre regalò alla Jugoslavia il diritto di confiscare tutti i beni dei cittadini italiani, con l'accordo che sarebbero poi stati indennizzati dal governo di Roma (Indennizzo che mai arrivò). 350 mila esuli Italiani furono quindi costretti ad abbandonare le proprie case e le proprie terre ammassando sui carri, le poche cose che potevano portare con sé. Molti scelsero di emigrare all’estero; soprattutto in Australia, Sud America, Canada e Stati Uniti. Molte famiglie, invece, scelsero di restare in Italia, riuscendo a sistemarsi, nonostante gli ostacoli dei ministri del partito comunista che, favorevoli alla Jugoslavia, minimizzarono la portata della diaspora. Emilio Sereni, ministro per l’Assistenza post-bellica, riceveva sul proprio tavolo tutti i rapporti con le domande di esodo e di assistenza provenienti da Pola, da Fiume, dall’Istria e dalla ex Dalmazia italiana e anziché farsene carico e presentare all’opinione pubblica la drammaticità della situazione minimizzò in tutti i modi possibili la portata del problema. Addirittura rifiutò di ammettere nuovi esuli nei campi profughi di Trieste con la scusa che non c’era più posto. In fondo per il Partito Comunista Italiano, gli esuli erano tutti fascisti che fuggivano dal Paradiso, ovvero dall’utopia comunista.

Fra queste migliaia di famiglie, c’era la famiglia di Mario, classe 1939. Una famiglia Italiana residente a Zara in Dalmazia, fortunatamente scampata agli eccidi di quei terribili anni. Il padre era socio di un’impresa di serramenti con 50 operai. Nella primavera del ‘48 le autorità croate gli comunicarono che se avesse voluto restare a Zara avrebbe dovuto rinunciare alla cittadinanza Italiana e slavizzare il proprio nome. Il padre che si sentiva Italiano e non era disposto a rinnegare le proprie origini, fece la sua scelta e dopo aver fatto richiesta al Governo italiano e ottenuto il permesso, si imbarcò con moglie e figli sul piroscafo che li avrebbe portati fino a Trieste. Prima di partire per la madre patria, il Sig. Mario mi ha descritto il clima di terrore in cui vivevano i superstiti Italiani. Bastava una mezza parola, una frase ambigua sul regime, una battuta per firmare la propria condanna a morte e sparire nel nulla. Suo cugino, adolescente all’epoca dei fatti, fece una critica sul regime di Tito in un bar e solo il provvidenziale avvertimento del parroco gli salvò la vita. Fuggì da casa poco prima dell’arrivo degli agenti dell’Ozna, la polizia segreta jugoslava che era alla perenne ricerca di “traditori” dell’ideologia comunista. Scappato nella notte, raggiunse dopo giorni di cammino e fatiche il confine Italiano. Era sufficiente anche una semplice segnalazione anonima per finire in un campo di concentramento. Molti furono i casi di “soffiate” fasulle compiute da croati rancorosi e invidiosi verso famiglie Italiane, economicamente più agiate. Una soluzione rapida e spietata per potersi appropriare dei loro averi. Un clima che ricordava la Germania nazista degli anni ‘30.

L’argomento foibe era un tabù, tutti sapevano ma nessun osava parlarne in pubblico. Addirittura, durante l’attesa per l’imbarco, alcuni agenti tentarono di trarre in inganno il padre di Mario, iniziando a parlar male del regime comunista e di Tito. Il padre grazie a Dio, capì subito che si trattava di una trappola e li liquidò dicendo loro che non si interessava di politica. Una volta giunti al campo profughi di Trieste, vennero trasferiti poco dopo nelle Marche e più precisamente nel campo profughi di Servigliano. Nato come campo di prigionia nel 1915 per i soldati austriaci, venne poi convertito in epoca fascista in prigione militare e infine utilizzato come campo di concentramento e transito provinciale, per civili stranieri ed ebrei in attesa di deportazione. La vita nel campo era dura, gli esuli (da 1000 fino a 3000) vivevano dentro delle baracche, sorvegliati da carabinieri, la notte calava il coprifuoco e di giorno si poteva uscire solo previo permesso. Il padre di Mario, nel 1950 trovò finalmente lavoro come operaio alla Fiat, partì alla volta di Torino e dopo essersi trasferito in un piccolo appartamento in via Romani, poté farsi raggiungere dai restanti componenti della famiglia. La casa non era grande, ma la gioia sì, finalmente potevano ricominciare una vita normale, dopo anni di sofferenze e patimento.

Dopo 60 anni di assordante silenzio, il 10 Febbraio 2004 finalmente è stata istituita per legge “La Giornata del Ricordo”. Ancora oggi purtroppo però, assistiamo a tentativi di una certa area politica di minimizzare, ignorare o ancor peggio negare questa immane tragedia Italiana che ha colpito i nostri fratelli. Invito queste persone a studiare e a rispettare i morti e i parenti di chi ha tanto sofferto in un passato non troppo lontano.

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