Perché lascio il Pd per Italia Viva

Mi sono avvicinato alla politica attiva con la nascita del Partito Democratico. Come molti, sono un nativo democratico. Ciò che mi convinse, fu la lucida risposta politico-istituzionale ai molti problemi del paese. E quella proposta era costruita alla radice nella logica dell’alleanza tra merito e bisogno, magistralmente teorizzata da Claudio Martelli nella conferenza programmatica del  PSI del 1982 a Rimini.

Il Pd nacque perciò come una forza di centrosinistra piantata su due gambe: la gamba sinistra, attenta soprattutto alle ragioni dei più deboli e degli interventi a loro sostegno; e quella destra, che doveva occuparsi di rifondare con grande radicalismo il sistema paese. Qui occorreva mettere all’opera e liberare le migliori energie in un’ottica meritocratica per ridare all’Italia, da un lato, la dignità, e dall’altro la capacità di crescere, modernizzarsi e sviluppare a pieno il proprio potenziale.

Il lavoro delle due gambe del Pd avrebbe dovuto consentirci di ridare al paese un futuro in cui coniugare sinergicamente e in ottica dinamica questa pluralità di interessi. Per farci tornare a crescere con forza e giustizia, creando con la crescita anche le risorse per gli ultimi e i più deboli.

La rapida archiviazione di Veltroni fece parzialmente perdere di vista l’orizzonte complessivo, così ben definito nella fase fondativa, e diede altresì avvio ad un pendolare in cui il partito si è alternativamente spostato dalla gamba destra a quella sinistra. E in questo oscillare tra asserite alternative, si è drammaticamente perso il fondamentale senso dell’alleanza tra merito e bisogno e della sua logica sinergica.

In particolare, in seguito, la parabola della leadership di Renzi nel Pd ha rivelato un’ulteriore dato: una parte importante del partito, di fronte alle riforme che costituirono il nocciolo della svolta renziana  (e già sostanzialmente definite, anche se nemmeno tentate, da Veltroni alla fondazione del Pd), ha reagito come di fronte ad un corpo estraneo con, al fine, una crisi di rigetto (culminata nella simbolica richiesta di “derenzizzazione”). E non mi pare si tratti della semplice crisi di rigetto nei confronti di un leader con un carattere spigoloso, ma, assai più pericolosamente, del radicale rifiuto di una parte costitutiva ed essenziale della proposta politica su cui il progetto del PD venne strutturato. Una chiusura ideologica con conseguenze dirompenti.

Cosicché, il combinato di una carenza di cultura liberal-democratica, e della mancata assimilazione di come le istanze del merito e quelle del bisogno dovessero agire nel quadro di un’alleanza, ha posto le basi per due scissioni guidate da due ex segretari in pochi anni e, a mio modo di vedere, l’avvio su un binario morto del progetto originario del Pd.

Naturalmente altri potenti fattori, anche esterni, hanno concorso.

Innanzitutto, l’esito del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 ha affossato la grande riforma che doveva predisporre l’infrastruttura istituzionale per l’azione del Pd. Molti sostengono che proprio da lì, come conseguenza inevitabile, prenda avvio lo smantellamento o perlomeno l’ineluttabile radicale cambiamento di natura del partito.

Poi, occorre ricordare come lo scenario politico sia stato radicalmente condizionato dalla crisi del 2008 e dagli effetti della globalizzazione. L’incapacità dei sistemi democratici occidentali di gestirle ha comportato come noto l’esplosione di sovranismi e populismi in giro per tutto l’occidente. In Italia, la Lega e il M5s.

Infine, due fatti recentissimi hanno contribuito alla vorticosa accelerazione.

Il primo fatto riguarda alcuni elementi di radicale svolta nell’orientamento programmatico sostanziale del nostro partito: dal “chiedere scusa agli italiani”, alla designazione alle riforme di un sostenitore del no al referendum e al lavoro di un acerrimo critico del Jobs Act.

Il secondo fatto è l’alleanza con il M5s che, da limitata, pare stia assumendo tratti strutturali e di reciproca contaminazione.

In questo quadro arriva, lacerante, la seconda scissione dopo quella di Bersani, quella di Renzi.

Giusta o sbagliata che fosse, è ormai un dato di scenario consolidato di cui non si può non tener conto, che cambia radicalmente le prospettive e rende non più contendibile la guida del partito da parte di alcune posizioni politiche. La sua uscita, e la permanente forza della sua leadership, rendono a questo punto nei fatti estremamente angusto il campo dentro il Pd e quasi impossibili correzioni per il tramite della contendibilità. La gamba destra sarà infatti enormemente indebolita dalla diaspora e dall’azione di Italia Viva. L’atteggiamento a tutti i livelli nei confronti dei residui sostenitori di Renzi rimasti nel Pd pare peraltro già evidenziare senza alcun dubbio che il partito, nel contempo, sta effettivamente agendo la definitiva derenzizzazione mentre sarà attratto con sempre più forza da una convergenza con il M5s favorita peraltro proprio dal forte assottigliarsi della componente che in parte sta abbandonando il Pd. Insomma, credo che certe posizioni nel Pd diventeranno marginali ed irrilevanti, con pochissimo spazio per recuperare.

Per tutto questo oggi, con grande rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, sono uscito dal Pd. Proverò a dare il mio contributo per costruire qualcosa di nuovo, che vada oltre questi limiti, in Italia Viva.

*Fabio Scarsi, ex segretario provinciale Pd Alessandria

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