Il ginepraio delle pensioni

Un radioascoltatore di “Prima Pagina” (trasmissione in onda tutti i giorni su Radio3 in cui vengono lette e commentate le prime pagine dei quotidiani) ha posto la seguente domanda al giornalista che conduceva il programma: “Al posto di quota 100 per proteggere i vecchi perché non mandiamo in pensione a 65 anni almeno per i prossimi due anni?”. Il conduttore ha risposto: “Immaginare di mandare tutti in pensione a 65 anni è una visione, diciamo creativa, di come giustificare l’ennesimo trasferimento di risorse a beneficio di una generazione che ne ha già avute tante; ci sono tutti quelli che hanno sofferto ma che hanno una situazione pensionistica infinitamente migliore di quella che avrà non solo la mia generazione ma anche quelle successive, per cui io sono sempre contrario a sanatorie e a riduzione di età pensionabile generalizzati, così, giusto per dare un po’ di altri benefici a chi ne ha già avuti tanti!”.

La risposta data induce qualche riflessione sul tema pensioni. In Italia esistono: la pensione di vecchiaia, la pensione anticipata, quota 100, Opzione donna, Ape sociale e l’isopensione. La pensione di vecchiaia necessita di 20 anni di contribuzione a fronte di 67 anni di età per tutte le categorie di lavoratori, uomini e donne, dipendenti e autonomi. La pensione anticipata spetta a tutti i lavoratori (dipendenti e autonomi) con un’anzianità contributiva di almeno 42 anni e 10 mesi (uomini) o 41 anni e 10 mesi (donne). Per la pensione anticipata persiste, dunque, una differenza nei requisiti tra i due sessi. Chi ha aperto la propria posizione contributiva dopo il 31 dicembre 1995 può anticipare la pensione a 64 anni di età, purché abbia almeno 20 anni di contributi e abbia maturato un assegno pensionistico di importo mensile pari o superiore a 2,8 volte quello dell’assegno sociale (459,83 euro x 2,8 uguale 1.287,52 euro). Quota 100 è un opzione introdotta dal decreto legge 4/2019 che consente di accedere alla pensione con 62 anni di età e 38 di contributi (misura sperimentale valida per i lavoratori che matureranno i requisiti entro il 31 dicembre 2021). Opzione donna è un’opzione indirizzata alle sole donne cui è concesso di accedere alla pensione con almeno 35 anni di contribuzione e 58 di età se dipendenti (59 se autonome), purché maturati entro il 31 dicembre 2019. L’Ape sociale permette a determinate categorie di lavoratori, individuate dalla legge, di ottenere, una volta raggiunti i 63 anni di età e i 30 anni di contributi, un “assegno ponte” fino alla maturazione dei requisiti necessari alla pensione di vecchiaia. L' isopensione è lo scivolo pensionistico, interamente pagato dall’azienda ai dipendenti del settore privato, in attesa della maturazione dei requisiti necessari per la pensione. L’azienda che decide di beneficiare i suoi dipendenti più anziani, deve avere più di 15 dipendenti e deve versare al dipendente “in esodo” un assegno di importo equivalente alla pensione (garantendo al contempo la relativa copertura contributiva). Il meccanismo, concordato con le categorie sindacali, consente un anticipo fino a un massimo di 7 anni rispetto alla normativa vigente.

Le attuali normative, comunque, concedono ai lavoratori del settore privato, se lo desiderano, di proseguire la propria carriera professionale fino all’età di 71 anni prima di andare in pensione, età del pensionamento forzato per sopraggiunti limiti di età. Nel settore pubblico, invece, raggiunta l’età per la pensione di vecchiaia scatta automaticamente la cessazioni del servizio. Viste le prospettive che offrono le pensioni tradizionali dell’Inps, molti italiani si rivolgono sempre più a pensioni integrative private (fondi pensione e piani individuali pensionistici-Pip) provvedendo, durante l’età lavorativa, a mettere da parte e a far fruttare i propri risparmi che poi saranno restituiti con gli interessi una volta maturati i requisiti pensionistici.  L’obiettivo della pensione integrativa, quindi, è molto semplice: consentire al risparmiatore di avere una rendita mensile, aggiuntiva alla pensione Inps, quando avrà smesso di lavorare.

L’Inps (Istituto Nazionale della Previdenza Sociale) è il principale ente previdenziale del sistema pensionistico pubblico italiano a cui sono obbligatoriamente iscritti tutti i dipendenti pubblici e privati e la maggior parte dei lavoratori autonomi che non abbiano una classe previdenziale autonoma. La sua gestione finanziaria non avviene nel rispetto del principio di capitalizzazione integrale (obbligazioni coperte dal patrimonio di previdenza e quindi esigibili sia nei confronti dei pensionati che degli attivi) così come vengono gestiti i fondi pensione o altri fondi previdenziali, ma con il principio di cassa (obbligazioni coperte dalle entrate correnti). Praticamente il patrimonio di previdenza Inps è inesistente.

Ma per meglio focalizzare quanto detto, si rappresenta un esempio reale (anonimo per privacy). Un lavoratore ha ipotizzato di andare in pensione nel 2023 con 43 anni di contributi e con una proiezione dell’ultima retribuzione lorda di  8.189,00 euro (rivalutazione dello stipendio in essere): il suo montante contributivo (cifra versata all’Inps e rivalutata) è stimato in 2.511.986,57 euro a cui corrisponde l’importo lordo mensile (pensione) di 5.591,00. Se, invece, dovesse optare per la pensione di vecchiaia (anno di inizio erogazione 2028) la proiezione dell’ultima retribuzione lorda sarebbe di 8.822,00 euro mentre il montante contributivo è stimato in 5.197.764,15 a cui corrisponde l’importo lordo mensile (pensione) di 7.327,00 euro. Ipotizzando, conservativamente, un tasso medio di rivalutazione annuo dell’1% (l’anno scorso è stato dell’1,8%), per poter beneficiare dell’intero ammontare versato all’Inps, il nostro lavoratore nel primo caso (2023) dovrebbe vivere 104 anni, mentre nell’ipotesi della pensione di vecchiaia (2028) la probabilità che riesca a recuperare i contributi versati è nulla!

Da quanto detto si può constatare che l’assegno di pensione erogato dall’Inps non è un “beneficio” concesso dallo Stato ma denaro accantonato dal lavoratore, e dalla sua azienda, e quindi di sua spettanza, o meglio un suo diritto. A causa della gestione finanziaria praticata dall’Inps, la modalità di erogazione delle pensioni non è facilmente modificabile in quanto, in mancanza delle entrate contributive dei lavoratori attivi, l’ente non è in grado di erogare la pensione ai lavoratori pensionati. Una modifica radicale metterebbe in seria crisi la tenuta sociale e politica dello Stato. Eppure qualche intervento che ristabilisca una equità tra quanto versato e quanto percepito, anche se a lunga scadenza, dovrà essere immaginato; sarebbe necessario che chi assume responsabilità di indirizzo e di governo della nazione avesse la volontà e la capacità di effettuare una programmazione a lungo termine per trasformare il sistema pensionistico obbligatorio: capacità indispensabile per operare dei cambiamenti strutturali di elevata rilevanza sociale.

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