La giustizia malata del nostro Paese

Sin dall’inizio della costituzione della Repubblica Italiana, lo Stato, attraverso i suoi organi costituzionali (Presidente della Repubblica, Parlamento, Corte Costituzionale, Governo e Consiglio Superiore della Magistratura), ha sempre dichiarato, con forza, che il Paese dispone della migliore assistenza sanitaria e ha una delle migliori, se non la migliore, carta costituzionale del mondo e, ça va sans dire, una amministrazione della giustizia che è guardata con ammirazione dagli altri Stati. Insomma, l’Italia non avrebbe nulla da imparare sia in ambito sanitario sia in ambito di Giustizia.

L’avvento della pandemia ha sollevato molti dubbi nei cittadini italiani sulla veridicità della nostra presunta eccellenza in campo sanitario, ma anche in quello giudiziario emerge qualche lecito dubbio. Nelle carceri italiane sono rinchiusi più di diecimila detenuti oltre la capienza regolamentare. Nonostante negli ultimi cinquant’anni siano stati adottati più di trenta provvedimenti di clemenza (amnistia e/o indulto, nel 2006 uscirono più di venticinquemila detenuti e al 2013 ne uscirono altri diecimila), a marzo 2019, su 46.904 posti disponibili nei 191 istituti di pena, erano presenti 60.512 detenuti, ossia 13.608 in più rispetto alla capienza regolamentare, con un sovraffollamento del 129%. Il Consiglio d’Europa definisce “un problema serio” quello del sovraffollamento dei penitenziari italiani e li denuncia come quelli con percentuale di non condannati più alta in Ue: quasi 20mila detenuti non condannati in via definitiva di cui la metà attende ancora che inizi il primo processo.

Il Covid-19 ha trovato quindi terreno fertile nella sua opera di contagi: al 22 novembre, nei penitenziari, il numero di positivi al Covid-19 era pari a 809 tra i detenuti e 1.042 tra il personale della polizia penitenziaria, amministrativa e dirigenziale. Ricordiamo al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, paladino degli illuministi, quanto uno dei suoi padri politico-spirituali, François-Marie Arouet, meglio conosciuto come Voltaire, affermava: “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione”.

Leggendo quanto asetticamente rilevato e classificato nel “Global competiveness index” (la più prestigiosa pubblicazione del World Economic Forum di Davos) la nostra giustizia si colloca, su 141 Paesi censiti, al 130esimo posto per capacità di “risolvere le controversie” ed al 126esimo posto per “efficienza del sistema legale in caso di contestazioni sulla normativa”. Un altro studio, elaborato dall’Ufficio statistico del Ministero della Giustizia che utilizza come parametri di riferimento il “Rapporto Doing Business” della Banca Mondiale e il rapporto European Judicial System realizzato dalla commissione del Consiglio d’Europa specializzata nella valutazione dei sistemi giudiziari (Cepej), pone l’Italia, per “efficienza del sistema giudiziario”, al 35esimo posto in Europa su 42 paesi monitorati. Al primo posto la Danimarca, seguita al secondo posto dal Portogallo e al terzo dalla Finlandia. Buoni anche i risultati della Francia, che ottiene l’ottava posizione, e della Germania che si piazza al 13esimo posto. Il sistema giudiziario dell’Italia è meno efficiente anche della Grecia che è al 31esimo posto. Peggio del Bel Paese troviamo solo la Polonia, 40esimo posto, la Turchia, 41esimo posto, e la Spagna che risulta ultima in classifica.

Come è evidente l’Italia, per raggiungere gli standard europei, dovrà impegnarsi molto nel migliorare leggi e procedure penali e civili. Ogni tanto qualche ministro italiano si fa prendere dal sacro fuoco di giustizia e accusa gli altri Stati, ad esempio la Francia, di proteggere, non concedendo l’estradizione, alcuni nostri terroristi che hanno chiesto asilo politico in quel paese. È il caso di Vincenzo Vecchi, l’ex no global ricercato per gli scontri durante il G8 del 2001 a Genova. Vecchi era stato condannato, con sentenza resa definitiva dalla Corte di Cassazione italiana il 13 luglio 2012, alla pena di 11 anni e 6 mesi per le violenze verificatesi. Arrestato a Rochefort en Terre (Francia) il 10 agosto 2019, su richiesta della polizia italiana, Vecchi non è mai stato estradato in Italia perché, secondo la Corte d’appello di Angers, il reato di “devastazione e saccheggio” non ha un corrispettivo nell’ordinamento francese. Il motivo è semplice: questo reato del codice penale italiano affonda le proprie radici nel codice Rocco, di epoca fascista, e può essere applicato anche quando il soggetto non è coinvolto direttamente negli scontri, ma, per esempio, solo sulla base della cosiddetta “compartecipazione psichica” agli eventi.

È emblematica anche la vicenda del professor Toni Negri, all’anagrafe Antonio Negri (Padova, 1° agosto 1933): filosofo, politologo, attivista, saggista, accademico e politico. Tra gli anni Sessanta e Settanta, fu uno dei maggiori teorici del marxismo operaista. Dagli anni ottanta in poi, si dedicò allo studio del pensiero politico di Baruch Spinoza. Ha svolto un’intensa attività di militanza politica, come co-fondatore e teorico militante delle organizzazioni della sinistra extraparlamentare Potere Operaio e Autonomia Operaia. A causa della sua attività politica è stato incarcerato e processato, all’interno del processo “7 aprile”, con l’accusa di aver partecipato ad atti terroristici e d’insurrezione armata. Venne, tuttavia, assolto da queste imputazioni, per poi venire condannato a 12 anni di carcere per associazione sovversiva e concorso morale nella rapina di Argelato. In merito a ciò, Negri proclamò sempre la propria innocenza, dichiarandosi vittima di errore giudiziario e asserendo d’essere stato condannato per un reato d’opinione. Toni Negri, divenuto deputato per il Partito Radicale nel 1983, e godendo quindi dell’immunità parlamentare, uscì di prigione ed espatriò in Francia, dove poté beneficiare della “dottrina Mitterrand” che negava l’estradizione e concedeva asilo per i reati che il governo di Parigi riteneva “a sfondo politico”. Lì insegnò all’Università di Saint-Denis. Francesco Cossiga, Ministro dell’Interno all’epoca del processo, ebbe in seguito a dichiarare: “Nei confronti di Toni Negri fu condotta un’azione giudiziaria che ricorda, mutatis mutandis, Mani Pulite. I classici teoremi dei magistrati di sinistra (...) l’arresto di Negri fu un'ingiustizia (...), (...) si sarebbe meritato una piccola condanna per aver incitato qualche studente (...), ha pagato un prezzo sproporzionato alle sue responsabilità” e “fu una vittima del giacobinismo giustizialista”.

Un caso odierno è quello di Matteo Sereni (ex portiere del Torino e della Sampdoria) che è stato prosciolto al termine di una vicenda giudiziaria molto travagliata. Nel 2011, durante la causa di separazione, venne accusato di abusi sessuali su minori dalla ex moglie. Condannato in primo grado a Tempio Pausania, il processo si trasferì a Sassari e poi a Torino, per competenza territoriale. Qui il pm ha chiesto l’archiviazione (secondo il primo pm Sereni aveva molestato la figlia di quattro anni) e il gip ha accolto la richiesta degli avvocati difensori secondo i quali i minori “sono stati per lungo tempo e reiteratamente interrogati con modalità inappropriate e potenzialmente suggestive di falsi ricordi dalla moglie separata, dalla suocera e dai consulenti tecnici in ambito civile e penale”. Ora il caso è ufficialmente e definitivamente archiviato ma intanto Sereni non ha potuto vedere i figli per ben 9 anni.

Il 3 luglio 2020, a quasi duecento giorni di distanza dal 20 dicembre 2019 in cui i finanzieri del Gico si presentarono presso la sua abitazione con un ordine di cattura, Roberto Rosso è tornato a casa in regime di arresti domiciliari. Roberto Rosso è accusato di aver raggiunto un “accordo” per un pacchetto di voti per le elezioni regionali in Piemonte in cambio di 15.000 euro, di cui ne avrebbe versati 8.000. Dopo due richieste di arresti domiciliari negati dal Gup, nonostante il parere favorevole dei pm che ne avevano ordinato l’arresto, al terzo tentativo il Gup ha accolto l’istanza permettendo l’uscita di Rosso dal carcere. Quali fatti si sono verificati per fare cambiare parere al giudice in merito alla concessione degli arresti domiciliari? E, soprattutto, quali erano le motivazioni suffragate da fatti che ne hanno impedito per due volte la concessione? Il Giudice nel corpo del provvedimento afferma: “Non sono in vista competizioni elettorali di qualsiasi natura” e aggiunge: “Va tenuto conto anche dell’effetto auspicabilmente dissuasivo esplicato dal non breve periodo di detenzione carceraria”. A limitarsi a leggere le parole del Gup sembra che le due condizioni “necessarie e sufficienti” che hanno impedito la concessione ai domiciliari siano state: 1) la presenza di competizioni elettorali politiche, 2) il tempo di detenzione (riabilitativo?) non ancora sufficiente

Viene da pensare che, in assenza di un giusto processo a un cittadino che si dichiara estraneo ai fatti contestatigli, almeno in alcuni casi, la carcerazione preventiva possa essere pensata per indurre l’imputato ad ammettere la colpa del reato. E se fosse così, lo Stato non commetterebbe reato? Un reato di tortura? (Dispositivo dell’art. 613 bis Codice Penale: “Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte, ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. Se i fatti di cui al primo comma sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, da cinque a dodici anni”).

Edward Luttwak (consulente all’Ufficio del Ministero della difesa e al Dipartimento di Stato statunitense, membro del National Security Study Group del Dipartimento della Difesa americano, membro dell’Istituto delle Politiche Fiscali e Monetarie, membro della Fondazione Italia Usa e del comitato editoriale del periodico francese Geopolitique) ha recentemente incontrato, in un confronto televisivo, l’ex pubblico ministero del pool di Mani pulite Piercamillo Davigo. Davigo si occupò di Tangentopoli e con altri colleghi fu oggetto di procedimenti penali da parte della Procura della Repubblica di Brescia per reati che andavano dall’abuso d’ufficio a reati eversivi contro l’ordinamento costituzionale. L’accusa di attentato agli organi costituzionali fu archiviata dopo due anni quando il ministro dell’Interno Maroni chiarì che il primo Governo Berlusconi era caduto “non per il processo ma perché la Lega aveva ritirato l’appoggio”. Nel 2018 Davigo venne eletto membro del Csm. Circa un mese fa è stato mandato in pensione forzata per raggiungimento di limiti d’età, ma Davigo ha già fatto ricorso al Tar. Tornando al confronto televisivo, durante l’incontro Luttwak ha affermato: “I magistrati italiani prima di accusare le persone devono raccogliere le prove” e Davigo ha risposto, in modo piccato: “Le prove si trovano indagando, non è che uno si sveglia al mattino e trova le prove sul tavolo”.

Ma mentre si svolgono le indagini, in assenza di una sentenza di un giudice, in uno Stato che si dice di Diritto, è giusto che un cittadino vada in galera per mesi, e a volte per anni, in attesa di un giusto processo e che venga esposto al pubblico ludibrio e condannato, con giustizia sommaria, a mezzo stampa?

print_icon