Giustizia, servono riforme vere

Da qualche settimana molti alludono ad un comportamento ipocrita del nostro governo che maschererebbe, dietro le limitazioni imposte a quanti privi del così detto green pass, la mancata assunzione di responsabilità che un chiaro obbligo vaccinale – già presente in altri casi – imporrebbe. Se da un lato bisogna certamente raccogliere l’ammonimento giunto da alcune voci preziose come Massimo Cacciari a non mai rinunziare alla pubblica discussione (dove aggettivo e sostantivo hanno peso eguale) men che meno su simili argomenti che profondamente connotano una comunità, le sue regole, la determinazione condivisa verso alcune scelte in base alle quali la collettività intera evolve se stessa, tuttavia se di ipocrisia davvero si tratta non è diversa o peggiore dalla vendita di sigarette con scritte e foto su ogni pacchetto per dissuaderne il consumo; o da lotterie d’ogni sorta che su ciascun tagliando rimproverano la possibile dipendenza ludopatica.

In altri termini lo Stato liberale per un verso esorta il comportamento da preferire, salvaguardando all’un tempo l’arbitrio dei singoli sino a quando esso non pregiudica quello dei terzi; ed è per questo che da anni non fumiamo più nei cinema, nei ristoranti, negli uffici senza – io credo – che tali limitazioni denotino alcuna ipocrisia di Stato; altrettanto dovrebbe quindi avvenire per i vaccini anti Covid. Ma se è di ipocrisia che di questi tempi ci piace parlare, vera o presunta, malcelata o manifesta, talora con illuminanti riflessioni ontologiche e talora a vanvera, converrebbe indirizzare il nostro ingegno – Cacciari incluso – sulla riforma della giustizia firmata Cartabia, sin qui relegata a cenacoli per addetti ai lavori o poco più.

Dopo numerose ed evidentemente inefficaci precedenti riforme, siamo infatti in presenza dell'ennesimo tentativo di modificare un istituto dal funzionamento per lo più insufficiente ma partendo ancora una volta col piede sbagliato e cioè immolando sull’altare della grande ipocrisia della obbligatorietà dell’azione penale l’obiettivo di veder al meglio garantita l’amministrazione della giustizia.

Cominciamo a raffrontare con qualche esempio i rispettivi argomenti in tema di prescrizioni e cioè il cuore della riforma. Se è vero quanto lamentato dalla totalità dei magistrati ovvero che 1/6 dei ricorsi per Cassazione è promosso verso sentenze di patteggiamento al solo scopo quindi di ritardare l’esecuzione della pena se non guadagnare i termini prescrizionali, è altrettanto vero dall’altro quanto additato dalle Camere Penali ovvero che i 2/3 delle prescrizioni maturano prima dell’udienza preliminare (primo grado) quando le difese non hanno ancora potuto prodigarsi affatto, ove pure animate dai peggiori intenti dilatori. Qualcuno mente? Nossignore, sono vere entrambe le cose: tanto la prima racconta di un comportamento che sfruttando tutti i mezzi offerti dalla procedura punta a garantire per ogni via l’interesse dei propri assistiti, quanto la seconda testimonia o perfino conclama che il processo accusatorio introdotto da Vassalli trent’anni fa non può oggettivamente celebrare il numero di dibattimenti dei quali è virtualmente incaricato. Per essere ancora più chiari: a coloro cui a buon titolo risulta insopportabile l’uso sfrontato delle impugnazioni come grimaldello per agguantare la sostanziale impunità, non potrà risultare meno ripugnante vedere rimessa alla totale arbitrarietà delle Procure – in non meno sfrontato urto con l’articolo 112 della Costituzione – la scelta tra fascicoli da mettere sul binario morto della prescrizione ed altri da coltivare in giudizio. Un esempio soltanto: la procura di Roma ha oltre 50 mila processi pronti da radicare ma il Tribunale capitolino per ragioni di organico non può riceverne più del 25%; se la Procura mandasse avanti tutti i fascicoli a sue mani, paralizzerebbe il Tribunale e l’ingiustizia trionferebbe al massimo grado; e così i procedimenti si prescrivono in Procura senza che il patteggiamento – pur propugnato dal vigente codice di procedura penale – abbia mai interessato più del 10% dei dossier, poiché puntare alla prescrizione riserva di solito maggior fortuna.

La strada è quindi quella di mastodontici potenziamenti d’organico come invocato dalla Associazione Nazionale Magistrati, o l’invenzione della riforma Cartabia che sotto il nome di “improcedibilità” introduce una vera e propria tagliola, afflittiva delle prerogative di ognuna delle parti coinvolte nei processi? Nessuna delle due: né l’ipertrofia della macchina della giustizia né una simile riforma aggrediscono infatti le cause, arruffandosi entrambe sui soli effetti ed allargando così l’area dell’impunità. E del resto secondo la ministra Cartabia se il processo dura più di due anni in Appello (tre per i reati più gravi) e uno in Cassazione (o 18 mesi) non può più proseguire per sopravvenuta improcedibilità, leggasi prescrizione. Qualunque processo, bagatellare o contro la cupola, per uno scippo o per una strage. Non serve un raffinato giurista per comprendere quale smisurato aumento delle impugnazioni dovremo attenderci avendo decuplicata la convenienza ad ingolfare la macchina della giustizia; né è il caso di incomodare prestigiosi esegeti del diritto per aver chiaro che tutti i processi per i quali non è prevista pena detentiva andranno gioco forza in coda, e non si tratta soltanto – ha ben detto Gratteri – di procedimenti contro la pubblica amministrazione.

In buona sostanza il meccanismo della riforma molto ricorda quanto accadeva in una cabina del telefono dovendo fare una interurbana: a meno di avere in tasca un chiletto di gettoni, la telefonata si interrompeva sul più bello. Se la riforma Cartabia si esaurisce in una riduzione dei gettoni del telefono, è proprio difficile – per chiunque – accoglierla come il salvifico contributo agognato dalla Commissione europea. È quindi forse nel giusto chi rimpiange la precedente riforma Bonafede che aboliva la prescrizione dopo la sentenza di primo grado? Dio ce ne scampi: ancora una volta, infatti, per l’estremo opposto rispetto alla Cartabia, si agiva sugli effetti ignorando puntualmente le cause.

Cos’è infatti la prescrizione? È un istituto che rimedia al caso in cui un imputato o le persone offese possano rimanere a vita in balia della giustizia, stritolati dalla irragionevole durata dei processi che – mai dimenticarlo – si concludono anche con sentenze di assoluzione; nel nostro ordinamento con buona pace di Bonafede l’imputato è assistito da una splendida presunzione di innocenza: oltre un termine appena accettabile lo Stato ha quindi il preciso dovere di rinunciare alla propria potestà punitiva. Se è innegabile la quotidiana elusione della obbligatorietà dell’azione penale, relegata a poco più di un’astrazione per diretta mano di chi è chiamato ad amministrar giustizia, è altrettanto allucinante il numero di impugnazioni promosse in Italia rispetto ad altri paesi occidentali. Sono entrambi fatti inoppugnabili che dovrebbero guidare la mano riformatrice attraverso la rideterminazione dei termini di impugnazione.

La Corte Suprema americana, con sei volte la nostra popolazione, celebra meno di 100 processi all’anno; in Italia vi sono annualmente 90 mila ricorsi per Cassazione contro mille circa della Francia – ordinamento simile al nostro – dove solo il 40% delle sentenze a pena da eseguire viene appellato mentre da noi è quasi il 100%: tali evidenze mentre da un lato spiegano plasticamente per quale ragione gonfiare oltremodo gli organici della magistratura neppure di lontano assomiglia alla soluzione, dall’altro indicano il punto esatto da toccare. Nel nostro Paese se l’appellante è solo imputato non è possibile la così detta “reformatio in peius” della sentenza del precedente grado di giustizio e quindi per temerario ed infondato che sia, viene comunque proposto appello a chiari fini prescrizionali; chi conserva un minimo di memoria del diritto romano (imperiale) non potrà non rammentare che l’imputato che si appellava all’imperatore poteva eccome rischiare anche un aggravio della pena; sotto questo aspetto è molto più aderente al nostro progenitore il modello anglosassone. Anziché quindi sfilare i gettoni di tasca ai giudici come la Cartabia o condannare all’ergastolo dentro le aule di giustizia come Bonafede (limitandoci alle ultime due “riforme”), perché non emendare con poche righe la possibilità di riformare le sentenze di appello a sfavore dell'imputato in presenza di fatti certi che lo impongano? Non sarebbe il miglior deterrente in assoluto verso le tanto vituperate impugnazioni strumentali? Non determinerebbe maggiore proclività ai patteggiamenti? Non garantirebbe pertanto ben superior ossequio alla obbligatorietà dell'azione penale grazie al conseguente decongestionamento dei carichi di lavoro degli uffici giudiziari? Non si ridurrebbe in ultimo l’area dell'impunità?

Ben vengano quindi, per cennare solo qualche punto, tanto la vasta depenalizzazione di reati ormai anacronistici quanto la digitalizzazione dei processi o la costruzione di nuove carceri grazie ai fondi di scopo del Pnrr, ma rifuggire comportamenti anodini significa rispettare nei fatti l’obbligatorietà della azione penale, in Italia rafforzata rispetto ad altri ordinamenti dal rango costituzionale che la contraddistingue; e svilire ogni giorno la Costituzione vuol dire mettersi sulla strada sbagliata.

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