Caso Burzi e domande sulla giustizia

Sabato 7 maggio, presso l’Nh hotel di Torino si è tenuto un incontro sul tema: “Angelo Burzi, una vita per la libertà, le sue idee, la sua passione, il suo impegno”. Durante l’incontro si è annunciata la nascita dell’Associazione Angelo Burzi che si propone di: “stimolare il dibattito nel mondo dell'associazionismo e del volontariato con riferimento ai temi della disabilità, della salute mentale, della prevenzione del disagio giovanile, della tutela dei diritti fondamentali della persona, anche di quanti entrano nel circuito penale; promuovere l'istituzione di borse di studio nei campi dell'imprenditorialità e della formazione di una nuova classe politica; sensibilizzare la politica, le istituzioni ed i mezzi di informazione sui temi del diritto, della giustizia e dei casi di giustizia negata; promuovere iniziative artistiche e culturali”.

L’ing. Angelo Burzi, ex assessore della Regione Piemonte, è stato accusato di aver avallato delle spese improprie quando era capogruppo in Regione. Burzi si è sempre dichiarato innocente dall’accusa sostenuta dalla procura della repubblica di Torino e nel processo di primo grado fu assolto perché “il fatto non sussiste”. Il Procuratore Generale, dott. Giancarlo Avenati Bassi, si appellò, con gli stessi atti d’accusa, alla Corte d’Appello di Torino che, a differenza dei giudici di primo grado, le ritenne sufficienti per condannare l’ing. Burzi. Il giorno del suo suicidio, la sera del Natale scorso, Angelo ha scritto un messaggio che ha inviato, tramite e-mail, ad una ristretta cerchia di amici e colleghi. Al centro del suo “j’accuse” le vicende giudiziarie che lo hanno coinvolto e la magistratura che l’ha condannato. Angelo Burzi scrive: “Che il mio abbandono sia di esplicita condanna per coloro che ne sono stati concausa”. Le parole più dure della mail, dall’oggetto inequivocabile (“La fine della storia”), l’ing. Burzi le riserva a chi ha sostenuto l’accusa nei suoi confronti: “il vero cattivo della storia, il sostituto procuratore che dall’inizio perseguì la sua logica colpevolista, direi politicamente colpevolista. Essendo persona preparata e colta non si arrese rispetto alle assoluzioni del primo grado, ma appellandosi a sua volta ottenne la condanna nel successivo appello. Ancor più colpevole a mio avviso perché, conoscendo in dettaglio i fatti che mi riguardano, insistette nelle sue tesi, infine trionfò pochi giorni fa con l’esito del rinnovato appello”.

Il suicidio dell’ing. Burzi non può essere considerato unicamente come dramma personale per lui, la sua famiglia, i suoi amici e conoscenti ma è una cartina al tornasole sullo stato della Giustizia in un paese che dichiara di essere uno Stato di Diritto. Il caso Burzi (congiuntamente ai molteplici che si sono verificati da “Mani pulite” in poi) rende indispensabile un’analisi rigorosa sui metodi e le modalità praticati dal pubblico ministero, e dalla Polizia Giudiziaria di cui si avvale, nel condurre le indagini preliminari da cui derivano l’archiviazione o l’esercizio dell’azione penale.

Durante l’incontro del 7 maggio è intervenuto anche l’on. Enrico Costa che definisce “scomodo” il tema relativo alla tutela della persona che entra nella giustizia penale. Nell’attuale stato di “marketing giudiziario” i media aiutano a creare nell’opinione pubblica un’etichettamento degli indagati che, una volta assolti, non permette di restituirli alla società nella dignità e anche nel portafoglio. La Magistratura, afferma l’onorevole, deve essere giudicata nei suoi elementi e, come in tutti i mestieri, deve essere chiaro chi è più o meno bravo. È scomodo farlo ma deve essere fatto perché è la nostra costituzione.

Analizzando l’iter delle indagini che conduce la Procura della Repubblica si inizia con la notizia di reato, e a seguire con la ricerca e l’acquisizione delle prove. Se il pubblico ministero ritiene di non aver acquisito elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio, richiede l’archiviazione. In caso contrario formula l’imputazione all’indagato, che a questo punto acquisisce lo status di imputato, e fa la richiesta di rinvio a giudizio. Da un rapporto del Ministero della Giustizia presentato alla Camera dei Deputati nel 2019 si legge che: 1) “dal 1992 (anno da cui parte la contabilità ufficiale delle riparazioni per ingiusta detenzione presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze) al 30 settembre 2018, si sono registrati oltre 27.200 casi di innocenti in custodia cautelare, in media 1.007 ogni anno”; 2) “la popolazione carceraria complessiva, che comprende cioè sia condannati sia indagati sottoposti a misura cautelare, ha subito un’oscillazione, negli ultimi anni, tra i circa 30 e i 60 mila detenuti”; 3) “i risarcimenti dovuti a queste persone hanno comportato per lo Stato una spesa che sfiora i 740 milioni di euro in indennizzi, per una media di 27,4 milioni di euro l’anno”.

Quando il dottor Nicola Gratteri, procuratore della repubblica di Catanzaro, a cui si riconosce una indiscussa professionalità, afferma che riuscire a fare condannare 70 cittadini su 91 imputati è un evidente indice di buon lavoro svolto dalla Procura, forse l’ottimo magistrato requirente non si rende conto che considerare un “errore” del 23% (i 21 assolti) un buon risultato, significa sottolineare il grosso problema che esiste sui metodi utilizzati nel corso delle indagini preliminari!

Che dire, poi, dell’appello del 6 maggio 2022 sul caso Monte dei Paschi di Siena che ribalta la sentenza di primo grado assolvendo tutti gli imputati? I giudici hanno annullato la sentenza di primo grado, che nel novembre 2019 aveva portato alla condanna di tutti i principali imputati (7 anni e 6 mesi di carcere per il presidente Mussari, 7 anni e 3 mesi per l'ex direttore generale Antonio Vigni e 4 anni e 8 mesi per l'ex responsabile dell'area finanza Gianluca Baldassari) perché “il fatto non sussiste o non costituisce reato”. Di conseguenza sono state “spazzate via” anche le multe di 64 milioni a Deutche Banck e 88 milioni a Nomura.

Sarebbe auspicabile che la Procura della Repubblica e la Polizia Giudiziaria utilizzassero, per le indagini, delle metodologie scientifiche standard come, ad esempio, il metodo scientifico sperimentale, introdotto da Galileo Galilei nel XVI secolo. Il metodo scientifico sperimentale si articola in due fasi: 1) fase induttiva: utilizzando gli opportuni strumenti, si raccolgono i dati, attraverso la cui “lettura”, si formulano delle ipotesi; 2) fase deduttiva: si verificano le varie ipotesi sottoponendo i dati ad un’analisi rigorosa attraverso delle contro prove. Nel caso l’ipotesi venga confermata si formula la teoria con la conferma della legge scientifica. Applicando il metodo di Galileo Galilei al processo organizzativo che sottende le attività delle “indagini preliminari” si evidenziano le seguenti fasi. Fase induttiva: il pm, venuto a conoscenza di informazioni che potrebbero implicare una ipotesi di reato, raccoglie, con metodo rigoroso, i fatti documentali attinenti al reato e redige una serie di ipotesi suffragate dai dati raccolti; Fase deduttiva: il pm sottopone a rigorosa verifica le ipotesi di reato su tutti i dati raccolti (magari con l’ausilio delle reti di Petri) e, solo se tutti i dati confermano incontrovertibilmente il reato da parte dell’indagato, il pm formula la corretta imputazione esercitando l’azione penale.

In una catena è l’anello più debole a caratterizzarne la resistenza complessiva; ebbene anche la consistenza complessiva di una catena di “anelli di prova” è data dall’anello più debole, l’anello che non è supportato da dati comprovanti. Mi rincuora quanto il dott. Carlo Nordio, ex procuratore aggiunto di Venezia, ha recentemente affermato sul tema della Giustizia intervenendo, come invitato, ad un incontro politico: “La riforma Cartabia è il minimo sindacale per ottenere i soldi dall’Europa ma una riforma davvero copernicana deve eliminare le incongruità che ci sono tra la Costituzione e i Codici” (Codice penale e Codice di procedura penale). Nordio ha aggiunto che sulla separazione delle carriere: “si può essere anche contrari per certe ragioni ma allora deve cambiare il sistema processuale. Così come per le “porte girevoli”, abbiamo assistito al paradosso che molti magistrati, che avevano acquisito notorietà attraverso inchieste con un risultato oggettivamente politico in quanto avevano fatto anche cadere governi, si sono poi presentati per prendere il posto di coloro che avevano inquisito e incarcerato”.

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