Italiani, litigiosi e pacifisti

Vorrei condividere delle riflessioni scaturitemi dalla lettura di un libro in cui si afferma che gli italiani hanno voluto fare l’Italia unita rimanendo affezionati al retaggio “campanilistico” del passato. L’autore sottolinea che gli italiani non hanno compreso che per riuscire a riformare l’Italia, sia prima necessario riformare sé stessi: l’Italia, come tutti i popoli, non potrà definirsi Nazione, non potrà essere ordinata, ben amministrata, forte nei confronti del mondo, libera ed autorevole fino a quando ogni cittadino non faccia il proprio dovere. Insomma: il primo bisogno dell’Italia è quello che si formino italiani dotati di carattere nobile e forte!

Mi è parso di individuare “analogie” nell’editoriale di Vittorio Feltri in cui scrive: “Siamo tutti indignati perché la politica è un nido di vipere. I partiti di maggioranza, che dovrebbero collaborare per assicurare un governo accettabile al Paese, in realtà trascorrono le giornate sul ring e si scazzottano quotidianamente oscillando tra lo spettacolare e l’imbarazzante. Il dialogo e il confronto sono stati sostituiti dal pugilato e, caso strano, vince chi incassa più pugni (…). I nostri connazionali non ne possono più dei duelli tra leader, ma dimenticano di essere come loro, se non peggiori, in materia di contenziosi e di aggressività (…). Insomma, se i politici sono carogne, i cittadini lo sono altrettanto. Le risse nei dibattiti televisivi e in Parlamento sono lo specchio di quanto avviene regolarmente nella Penisola”.

Queste tesi sono asseverate anche dal Censis (Istituto di ricerca socio-economica) che in una sua indagine rileva quanto il popolo italiano sia uno tra i più litigiosi d’Europa e che in Italia si respira “un clima in cui si afferma con forza il primato dell’io e la convinzione che le regole, anche quelle scritte, siano relative”. Il Censis ci dice che l’85 per cento degli italiani si arroga il diritto di essere il giudice unico dei propri comportamenti affermando che la coscienza individuale viene prima di tutto. Analizzando i dati relativi alla giustizia civile, in Italia si registrano circa 4 procedimenti ogni mille abitanti, a fronte di una media Ocse di 2,5 per 1.000. Al nostro pari sono Grecia, Spagna e Repubblica Ceca, mentre peggio di noi (nel continente europeo) c’è solo la Russia (10 per mille). La palma d’oro per la poca litigiosità va alla Finlandia, dove si registrano solo 0,3 procedimenti ogni mille abitanti. I principali motivi di lite si rilevano nei condomini.

Dal sondaggio Changes Unipol, elaborato da Ipsos, emerge che in media un italiano su tre ha avuto almeno una lite con i propri vicini e che nel 15percento dei casi i litigi si sono reiterati. La città più litigiosa è Napoli con il 37percento di persone che hanno dichiarato di avere sostenuto almeno un litigio con il vicinato. Al secondo posto vi è Roma con il 34 per cento degli intervistati. Il terzo posto è di Cagliari (33 per cento) e il quarto è di Torino (31per cento). Si rileva inoltre che il 70 per cento degli italiani risiede in complessi condominiali ma solo il 37 per cento si relaziona con gli altri condomini, e questo è una cartina al tornasole circa la scarsa predisposizione a socializzare. Anche il Codacons, associazione dei consumatori, sembra confermare quanto scritto da Feltri; rilevando come fattore di maggior litigiosità interpersonale le “beghe” condominiali. Inoltre, sempre da Codacons, risulta che ogni anno vengono intentate oltre due milioni le cause tra vicini di casa: cani che abbaiano, panni stesi, rumori molesti, e tanto altro.

Questa italica predisposizione alla “litigiosità” sembra scemare quando si affrontano temi bellici. Il sondaggio Ipsos (leader mondiale nelle ricerche di mercato) realizzato per ISPI (Istituto per gli studi di politica internazionale) rileva che il 32 per cento degli italiani si dice favorevole all’invio di armi in Ucraina mentre il 50 per cento è contrario. Che cosa significa, che gli Italiani sono pacifisti? Che sono brava gente? Non per l’ex presidente del consiglio Mario Draghi che ha dichiarato: “Nell’onorare la memoria di chi lottò per la libertà dobbiamo anche ricordarci che non fummo tutti, noi italiani, brava gente. Dobbiamo ricordare che non scegliere è immorale. Significa far morire un’altra volta chi mostrò coraggio davanti agli occupanti e ai loro alleati, e sacrificò sé stesso per consentirci di vivere in un Paese democratico”. In realtà noi scegliamo in modo contradittorio a seconda che si tratti di “io” o degli “altri”. Siamo pacifisti, ecologici, “giusti” nel giudicare i fatti che sembrano non toccarci, ma quando i soggetti in campo sono “io” e i “miei beni”, siano essi persone o materiali, il metro cambia e quindi “attento a cosa fai perché io ti uccido”, “chi se ne frega tanto non è per un po’ di plastica che il mondo sparisce” o “guarda che ti brucio la macchina se dai ancora un brutto voto a mio figlio”.

Se in Italia si respira un clima in cui vige il primato dell’io sulla propensione all’appartenenza ad un popolo, e se, per l’italiano medio, la gerarchia valoriale è data da Io, la famiglia, il rione, il comune, la provincia e la regione, potremmo mai sentirci intimamente italiani? Ed europei? Siamo un popolo dei Diritti più che dei Doveri! O forse siamo addirittura un insieme di tribù.

Il libro che ha ispirato queste mie riflessioni, l’ho ritrovato nella soffitta della casa di campagna dei miei genitori nelle Alte Langhe. Le parole che mi hanno colpito dicevano: “L'Italia da circa mezzo secolo s’agita, si travaglia per divenire un sol popolo, e farsi Nazione. Ha riacquistato il suo territorio in gran parte. La lotta collo straniero è portata a buon porto, ma non è questa la difficoltà maggiore. La maggiore, la vera, quella che mantiene tutto incerto, tutto in forse, è la lotta interna. I più pericolosi nemici d'Italia non sono gli Austriaci, sono gl'Italiani. E perché? Per la ragione che gl’Italiani hanno voluto far un’Italia nuova, e loro rimanere gl’Italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico il loro retaggio; perché pensano a riformare l’Italia, e nessuno s’accorge che per riuscirvi bisogna prima riformare sé stesso; perché l’Italia, come tutt’i popoli, non potrà divenir nazione, non potrà esser ordinata, ben amministrata, forte così contro lo straniero, come contro i settari dell’interno, libera e di propria ragione, finché grandi e piccoli e mezzani, ognuno nella sua sfera non faccia il suo dovere, e non lo faccia bene, od almeno il meglio che può. Ma a fare il proprio dovere, il più delle volte fastidioso, volgare, ignorato, ci vuol forza di volontà e persuasione che il dovere si deve adempiere non perché diverte o frutta, ma perché è dovere; e questa forza di volontà, questa persuasione, è quella preziosa dote che con un solo vocabolo si chiama carattere, onde, per dirla in una parola sola, il primo bisogno d'Italia è che si formino Italiani dotati d’alti e forti caratteri. E pur troppo si va ogni giorno più verso il polo opposto: purtroppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gl’Italiani” Quel vecchio libro è “I miei ricordi” di Massimo D’Azeglio, edito da Barbera nel 1867 e, a distanza di quasi centosessanta anni, ci fotografa ancora.

print_icon