Intesa milanese, fin all'origine
Alfredo Quazzo 16:28 Sabato 15 Febbraio 2025 0
Prendendo un caffè sullo Spiffero, sono incappato su “Messina agita Torino” in cui si dà notizia della presentazione del budget filantropico di Cariplo, tenutosi a Milano, e della presenza all’incontro del presidente della Compagnia di San Paolo, Marco Gilli, che “pare sempre più spesso tenuto ai margini, anche nella stessa Acri.” Scartabellando sugli storici dello Spiffero ho ritrovato la frase che pronunciò Roberto Cota, all’indomani della sua elezione alla Presidenza del Piemonte, riferendosi alla fusione Intesa-San Paolo Imi del 2006: «È stata fatta solo per assicurare una poltrona a qualcuno»! All’epoca era iniziato il mantra “grande è bello”, mantra creato dalla globalizzazione che, si diceva, obbligava il nostro sistema bancario ad uscire da un anacronistico isolamento per competere sui mercati internazionali in modo da essere di più concreto aiuto al sistema delle imprese.
In Sanpaolo-IMI c’erano: presidente Enrico Salza, amministratore delegato Alfonso Iozzo e direttore generale Pietro Modiano. La banca, nata nel lontano 1563 a Torino, consolidata attraverso uno sviluppo commerciale inarrestabile e cresciuta per successive acquisizioni, aveva raggiunto oltre 3.000 filiali, circa 50.000 dipendenti e un’importante presenza sui mercati esteri, soprattutto in Europa. La banca, di chiara impronta sabauda, aveva fondamentali economici e finanziari di buon livello e in continua crescita, aveva spinte da parte del territorio piemontese tali da portarla ad essere considerata fra gli istituti di credito italiani di maggior prestigio. I due principali azionisti erano la Compagnia di San Paolo con il 14,19 per cento e il Banco Santander Central Hispano con l’8,43 per cento.
Il mantra del “gigante”, intanto, si stava insinuava nelle strategie di altre banche. Lo straniero Credit Agricole, che deteneva il 18,04 per cento delle azioni di Banca Intesa, non soddisfatto della gestione della banca, aveva progettato la scalata della stessa. Preoccupato, Giovanni Bazoli, presidente di Intesa, imbastì uno scaltro disegno con l’aiuto del suo amico e partner di tante operazioni, Romain Zaleski, presidente e maggior azionista della Carlo Tassara spa (già socio in Banca Intesa con l’1,58 per cento): fece acquisire a Zaleski, con un prestito di 600 milioni concesso da Banca Intesa (+ 50 milioni da Sanpaolo Imi), azioni Sanpaolo Imi per un valore sufficiente da poterlo qualificare tra i grandi soci della banca torinese (quote di almeno il 2 per cento dell’intero azionariato). Poi intessé con i vertici della Banca Sanpaolo Imi e con la Compagnia di San Paolo l’ipotesi di una fusione con Banca Intesa, tutta nazionale, promettendo al Credit Agricole la Cassa di Risparmio di Parma (parte del Gruppo Intesa) pur di farla desistere da pretese di scalata.
Il presidente del Santander, Emilio Botin, cercò di contrapporsi alla fusione organizzando una cordata per raggiungere la minoranza di blocco, ma il fronte dei favorevoli, Compagnia San Paolo e Zaleski in primis, era troppo massiccio e alla fine Santander desistette: non si presentò in Assemblea e mise in vendita le proprie azioni.
La fusione “alla pari” (si fa per dire) tra Intesa e Sanpaolo Imi fu varata e nacque Intesa Sanpaolo, banca da 65 miliardi di euro con circa 6.000 filiali in Italia e poco meno di 100.000 dipendenti. La sede legale era a Torino, ma la direzione operativa era a Milano; a riporto dell’amministratore delegato Corrado Passera (di provenienza Intesa) c’erano 13 “alti dirigenti”, ma 9 provenienti da Intesa e 4 da Sanpaolo Imi; il totale complessivo dei dirigenti-quadri era di 530 unità, ma 337 di derivazione Intesa, 190 di Sanpaolo Imi e 3 di nuova assunzione.
Nella struttura il dottor Carlo Messina era cfo così come era stato in Banca Intesa. Nel 2013, in seguito alla “chiacchierata” uscita del dottor Enrico Tommaso Chucchiani, che aveva sostituito Passera nel 2011, e che, sembra, si fosse rifiutato di ristrutturare alcuni crediti importanti, tra cui quello di Zaleski (che in seguito si rivelò inesigibile), Messina salì sullo scranno dell’amministratore delegato. A tal proposito in quell’ottobre uscì un servizio di Report, su Rai3, in cui la giornalista Giovanna Boursier nell’intervistare Modiano chiese se fosse normale concedere un credito di 600+50 milioni di euro senza garanzie. Modiano rispose “Se lei chiede di commentare un fatto di banca allora concorrente non lo commento”. All’insistenza della giornalista, infine, con sfuggevole eleganza, rispose che 50 milioni di euro era normale, riferendosi al prestito concesso dal Sanpaolo, e non aggiunse altro.
Il “piano inclinato” che piega in direzione di Milano non è quindi un caso ma è la logica conseguenza di quanto determinato nel 2006 da chi ha portato in porto la fusione tra Banca Sanpaolo Imi e Banca Intesa Bci, con buona pace della Compagnia di San Paolo primo azionista della banca. Non possiamo certo stupirci che in data 13 febbraio 2025 si sia creato un “asse milanese” tra il numero uno di Palazzo Melzi, Giovanni Azzone, e l’amministratore delegato di banca Intesa Sanpaolo Carlo Messina. In questo quadro, mi chiedo, che cosa può mai fare oggi il prof. Marco Gilli attuale presidente della Compagnia di San Paolo?