La verità (non) è una parola
Alfredo Quazzo 14:59 Giovedì 27 Febbraio 2025 0
Con l’invasione militare dell’Ucraina da parte della Russia, sui media è tornato in auge il termine “imperialismo”: la Russia, invadendo l’Ucraina, si dice abbia dato il via a «il disegno imperiale di Putin». Anche gli Stati Uniti spesso sono tacciati di essere imperialisti per i loro modo di condurre la politica estera finalizzata a consolidare il proprio “impero” di influenza. Eppure, né la Russia né gli Stati Uniti sono governati da un imperatore ma sono democrazie presidenziali, dove il capo di Stato è eletto con libero voto dai cittadini. Ma allora perché si fa riferimento all’imperialismo e si usa il termine Impero?
Angelo Panebianco, nel suo ultimo lavoro editoriale “Principati e repubbliche” (edizioni Il Mulino), scrive: «Molti ci si sono dedicati ma mettere a punto una definizione minima di “impero”, una definizione in grado di adattarsi agli imperi arcaici, antichi e moderni, nonché alle diverse varietà di imperi esistiti nelle diverse epoche, non è facile». Per Panebianco «l’impero è un tipo di stato» la cui prima qualità è la grandezza come combinazione di estensione geografica e di numero di abitanti. Quindi un impero è un tipo di polity ovvero definisce una identità istituzionale e dei confini di una comunità politica, le cui dimensioni sono mutevoli e artificiali. Una polity è grande o piccola in confronto alle altre polities con cui è in contatto. Secondo Michael Doyle (1986) un impero «è uno stato che esercita un controllo tanto sulla politica estera quanto sulla politica interna di un'altra o più entità politiche.» Egli considera solo la dimensione politica, mentre altri comprendono anche una componente culturale: «un impero, per essere tale, deve essere “multietnico”, deve governare una molteplicità di gruppi etnici, dislocati nelle periferie dell’impero, diversi fra loro nonché diversi dall’etnia dominante la quale occupa i territori centrali dell’impero».
Panebianco ritiene comunque che, oltre a tener conto sia della dimensione politica sia di quella culturale, sia utile considerare altri quattro caratteri. Il primo: «in un impero le periferie sono in rapporto (istituzionale) con il centro ma non fra di loro»; il secondo: «le periferie di un impero, per lo più, non sono governate allo stesso modo dal centro»; il terzo: le frontiere «sono fluttuanti e mai nettamente definite (tranne quando si incontrano con ostacoli naturali: montagne, mari, ecc.)»; il quarto: «spesso (anche se non sempre) l’impero si attribuisce una missione universale, si autorappresenta come legittimato a dominare tutti i popoli conosciuti. Le classi dirigenti degli imperi, i suoi governanti e gli uomini di pensiero (oggi diremmo: gli “intellettuali”) che li coadiuvano e li appoggiano, elaborano idee, dottrine, visioni del mondo, che hanno il compito di legittimare la missione imperiale. Il ruolo di questa missione acquista una particolare intensità quando si sposa con una religione monoteista della quale l’impero si atteggia a campione e a difensore».
Ci sono correnti di pensiero, come quella dello stesso Panebianco, convinte che l’impero sia sempre fondato sul potere assoluto di un sovrano e che quindi si configuri come il “principato” del Machiavelli, altri, invece, sono convinti che l’impero sia associabile a diversi regimi politici. Esistono poi ancora le egemonie, ovvero “situazioni nelle quali la “polity” più potente controlla solo la politica estera della “polity” più debole.” «Storicamente, negli imperi, come nelle repubbliche imperiali, i rapporti fra centro e periferia possono essere in parte di tipo imperiale e in parte di tipo egemonico».
Il libro del professor Panebianco sviscera la problematica lungo 759 pagine, di cui 77 sono riferimenti bibliografici. Ancora una volta, leggendo alcune parti del libro, ho avuto conferma che spesso utilizziamo i termini in modo improprio. La parola “imperialista”, per esempio, non viene utilizzata nella sua corretta accezione, ma viene spesso usata, in senso negativo, per qualificare un governante “aggressivo” verso altri paesi indipendentemente dal reale ordinamento politico-giuridico del paese che governa. Oppure tendiamo a confondere il termine imperialista con il termine dittatoriale: ma mentre per imperialista si intende lo Stato che pratica una politica di potenza e di supremazia tesa a creare una situazione di predominio, diretto o indiretto, su altre nazioni mediante conquista militare, annessione territoriale, sfruttamento economico o egemonia politica, per dittatoriale si intende una forma di governo che accentra il potere in un solo soggetto, il dittatore.
Le due definizioni non sono intercambiabili anche se possono coesistere in uno stesso soggetto. Un esempio fu l’imperatore Ottaviano Augusto, figlio adottivo di Giulio Cesare che nel maggio del 44 a.C., rivendicò i diritti di figlio ed erede del dittatore. Anche Trump, presidente degli Stati Uniti d’America, che è una repubblica presidenziale federale, dimostra delle tendenze imperialiste quando parla di annettere il Canale di Panama, la Groenlandia e il Canada, ma non può certo ordinarne la conquista. Eppure, sui giornali, travisando ancora una volta le definizioni, si legge «arriva il Nuovo Imperialismo Americano», come se negli Stati Uniti il popolo non avesse eletto un presidente ma si fosse instaurato un imperatore con poteri dittatoriali.
Noi, esseri umani, comunichiamo con le parole e se assegniamo loro significati impropri, otteniamo una comunicazione distorta. Se ci riappropriassimo delle parole e del loro significato, miglioreremmo la comunicazione evitando pericolose incomprensioni. Sarebbe importante che soprattutto i media, dai quali assorbiamo le informazioni e i modi di esprimerci, recuperassero la professionalità e l’onestà intellettuale necessaria per comunicare senza distorcere il corretto significato delle parole e di conseguenza dei fatti. I media si dice siano il quarto potere e hanno un ruolo importante in una democrazia e non dovrebbero mai cedere alla tentazione di sobillare la popolazione con parole improprie che non fanno altro che alimentare fack-news. Perché le fack-news non vengono alimentate solo in situazione “goliardiche” ma possono arrecare seri danni.
Una delle fake-news più gravi e dannose è stata quella che, nel 2003, affermava il possesso di armi di distruzione di massa da parte dell’Iraq di Saddam Hussein. L’informazione fu ampiamente diffusa dai media senza una corretta valutazione della veridicità, contribuendo a giustificare l’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati. L’invasione causò centinaia di migliaia di morti, enormi distruzioni e ha avuto conseguenze a lungo termine nella instabilità in Medio Oriente. Fare il giornalista è un mestiere di grande responsabilità sociale e per questo deve essere svolto fornendo ai lettori informazioni verificate, dando sempre visibilità delle fonti, utilizzando le corrette terminologie per qualificare i soggetti e gli avvenimenti e, ultimo ma non ultimo, avendo il coraggio di ammettere gli errori con dovute e pronte rettifiche.