Industria, oltre gli slogan

Negli ultimi mesi, il dibattito pubblico sull’economia globale si è infiammato attorno alla reinternalizzazione delle filiere produttive. Dopo trent’anni di globalizzazione spinta e di delocalizzazione verso Paesi a basso costo del lavoro, molti governi e analisti stanno teorizzando — e in alcuni casi tentando — un’inversione di tendenza. Si tratta del cosiddetto reshoring, processo volto a riportare entro i confini nazionali segmenti significativi della catena del valore, in nome della sicurezza economica, della resilienza industriale e della sovranità tecnologica. Tuttavia, questa narrazione – a tratti troppo lineare – sembra ossessionata da una sola domanda: è economicamente sostenibile rilocalizzare gli impianti produttivi? Cosa accadrebbe ai margini di profitto, ai costi logistici, ai prezzi al consumo?

In questa cornice manca un elemento cruciale: la qualità e la disponibilità della manodopera nei territori in cui si vorrebbero reimpiantare le fabbriche. È qui che il dibattito si fa pericolosamente miope. Non basta riportare i macchinari: occorre che esista un ecosistema produttivo fatto di conoscenze, competenze tecniche diffuse, formazione continua e infrastrutture abilitanti. Negli ultimi decenni, in Occidente, intere generazioni hanno progressivamente perso il contatto con le competenze industriali che avevano reso alcuni territori veri e propri distretti del sapere tecnico. Per oltre un secolo, intere aree d’Europa sono cresciute attorno a un sistema manifatturiero che non solo produceva beni, ma generava anche identità, cultura materiale e competenze intergenerazionali. La delocalizzazione massiccia degli anni ’80 e ’90 ha interrotto brutalmente questa trasmissione di sapere. Due generazioni dopo, l’idea che sia sufficiente rilocalizzare per ritrovare produttività è una pericolosa illusione.

A tutto ciò si aggiunge una doppia fragilità strutturale. Da un lato, il declino demografico ha ridotto la base quantitativa della forza lavoro, specialmente nelle aree periferiche e deindustrializzate, da tempo interessate da fenomeni migratori interni e spopolamento giovanile. Dall’altro, il nostro sistema educativo ha da anni ridotto — se non smantellato — i percorsi di formazione tecnica e professionale, in favore di un’istruzione più generalista, spesso incapace di dialogare con l’evoluzione del mondo produttivo. Non va dimenticato, poi, che la manifattura del XXI secolo non è la stessa di quella del Novecento. I processi di automazione avanzata (Industria 4.0 e 5.0), la digitalizzazione delle catene produttive, l’introduzione dell’intelligenza artificiale, stanno trasformando radicalmente i ruoli umani nella produzione. Le mansioni più ripetitive e meno qualificate sono sempre più eseguite da macchine; la domanda di lavoro si sposta verso figure altamente specializzate, capaci di operare in ambienti ibridi uomo-macchina, di gestire dati in tempo reale e intervenire su processi complessi.

Diventa necessario, quindi, domandarsi se un territorio dispone di tale manodopera specializzata o è capace e pronta a gestire un processo di migrazione ed insediamento di una nuova classe lavoratrice. In questo scenario, politiche protezionistiche finalizzate unicamente a scoraggiare le importazioni o a penalizzare la delocalizzazione rischiano di produrre un duplice fallimento. Non solo non garantiscono in modo automatico il ritorno della produzione nei Paesi d’origine, ma ignorano una variabile cruciale: molti territori un tempo industrializzati non sono oggi in condizione di accogliere nuovi insediamenti produttivi. La lunga erosione del capitale umano e del know-how locale – il “saper fare” che si trasmetteva tra generazioni – ha minato in profondità la competitività sistemica di questi contesti. In assenza di competenze diffuse, infrastrutture aggiornate e sistemi formativi adeguati, il rischio è quello di costruire politiche industriali nel vuoto. Nel frattempo, l’inasprimento delle barriere commerciali può esporre l’intero sistema economico a nuove fragilità nella catena di fornitura, con ricadute immediate su prezzi, disponibilità dei beni e pressione inflattiva.

Serve invece un cambio di paradigma. Prima di accorciare le filiere, occorre ricostruire i territori produttivi. Serve un grande investimento nella ricostruzione della base educativa e formativa, nella valorizzazione dei saperi tecnici e nella progettazione territoriale orientata alla reindustrializzazione intelligente. Non si tratta solo di infrastrutture fisiche, ma di infrastrutture cognitive e sociali. Se davvero vogliamo che l’Occidente torni a essere un polo manifatturiero avanzato, non possiamo limitarci a riprendere vecchie fabbriche e vecchie logiche. Dobbiamo costruire le condizioni per una nuova generazione di lavoro industriale: competente, stabile, ben retribuito, ambientalmente sostenibile e socialmente radicato. Solo così la reindustrializzazione potrà essere più di uno slogan: potrà diventare una strategia credibile per lo sviluppo territoriale e per un nuovo patto tra economia e società.

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