Servi muti del Sistema Torino
Alfredo Quazzo 09:33 Venerdì 20 Giugno 2025 0
Alcuni lettori mi hanno chiesto informazioni sulla “genesi” del cosiddetto “Sistema Torino” da me citato nella lettera: “Solo apprendisti (poco) stregoni”. A tal proposito, scartabellando, ho trovato un articolo pubblicato nel 2014 in cui si afferma che la locuzione “Sistema Torino” era stata una creazione di Chiara Appendino, “una giovane consigliere comunale torinese del M5s”, durante un’intervista a Presa Diretta in cui si indagava sulle ragioni del dissesto del Comune di Torino, “figlio anche di un sistema coordinato finalizzato alla cogestione della città”. Fatto curioso è che “la giovane consigliere comunale” è la figlia di Domenico Appendino, vicepresidente esecutivo di Prima Industrie (gruppo multinazionale con 1900 dipendenti e fatturato 2023 di 485 milioni di euro), che sembra aver titolo per appartenere a quella “struttura informale” che la figlia Chiara battezzò “Sistema Torino”. A tal proposito consiglio di rileggere anche l’articolo sullo Spiffero del 07 novembre 2018 “Prima l’hanno blandita e votata, oggi si pentono di Appendino”.
“Sistema Torino” è la rete di potere informale che, secondo alcune analisi critiche, ha influenzato la gestione politica, economica e culturale della città. Questa rete è composta da un insieme di professionisti, accademici, politici, imprenditori e burocrati che, attraverso alleanze strategiche, hanno esercitato, e ancora oggi esercitano, un controllo significativo sulle decisioni chiave della città. Ma dove affondano le radici di questo sistema?
È necessario risalire al primo periodo post Seconda guerra mondiale, quando la città rinascere dalle macerie fisiche e sociali della guerra, ed è qui che il “Sistema Torino” giocò un ruolo fondamentale: provvide alla ricostruzione economica e diede il via alla crescita della città. La forte impronta industriale, la centralità di Fiat e il proliferare di aziende ed infrastrutture, attirarono grandi quantità di manodopera dal sud dell’Italia. Tra il 1958 e il 1963 più di 800.000 meridionali abbandonarono le proprie case per trasferirsi nelle grandi città del triangolo industriale, prima tra tutte Torino. Ogni giorno sempre più persone arrivavano a bordo del Treno del Sole, un convoglio che in ventitré ore attraversava l’Italia, dalla Sicilia al Piemonte, e si riversavano sulle banchine della stazione di Porta Nuova. Il flusso migratorio presto si tradusse in una crescita della popolazione torinese: dai 753.000 abitanti del 1953 a 1.114.000 del 1963, portando il saldo migratorio cittadino a essere quello “più elevato di tutte le altre città italiane”. Per contro l’arrivo in città di un così grande numero di emigranti con cultura (usi e costumi) diversa da quella locale, generò frizioni e discriminazioni verso i “nuovi arrivati”, tanto che vennero appesi cartelli dal sapore razzista ai portoni delle case e dei negozi: “non si affitta ai meridionali”, o “vietato l’ingresso ai cani e ai terroni”.
La necessità di operare con efficienza ed efficacia, senza badare troppo agli “orpelli burocratici”, agevolò, nel primo Dopoguerra, l’affermarsi di una classe dirigente locale avvezza, per necessità ed opportunità, a districarsi con velocità e disinvoltura tra le istituzioni politiche, le università, le professioni e le imprese. Si andò a consolidare una rete di potere, il “Sistema Torino”, che, influenzando le scelte urbanistiche, economiche e culturali della città negli anni a venire, ha garantito il mantenimento e la perpetuazione del proprio potere, talvolta a scapito della trasparenza e della partecipazione democratica, favorendo gli interessi di chi del “Sistema” faceva parte. Reti informali di potere, come il “Sistema Torino”, frutto di dinamiche storiche e di poteri consolidati, esistono, o sono esistite, anche in altre città italiane, ma diversamente da Torino non si sono perpetuati, sibi fideles.
Torino, pur avendo grandi risorse culturali, industriali ed umane non è riuscita nella transizione, per dirla con Carl Popper, da una “società chiusa”, magica o tribale o collettivistica, (sistema emergenziale del dopo guerra) ad una “società aperta” in cui gli individui si confrontano con le loro decisioni personali. Anche a Milano, ad esempio, si è generato un sistema “consociativo” ma non è riuscito a diventare “tossico”. Il “Sistema Torino” non ha consentito all’ex capitale di perseguire la necessaria modernizzazione, anzi, ha ostacolato lo sviluppo della città, ha bloccato il ricambio generazionale e culturale, ha frenato gli investimenti esterni per proteggere il proprio equilibrio interno, ha gestito il potere più come un’eredità che come un’opportunità di cambiamento. Torino è stata schiacciata dal peso della Storia, della Fiat e delle élite chiuse, ha subito la trasformazione da un sistema fisiologico positivo e collaborativo tra diversi attori della città, in un freno al cambiamento, cambiamento che era ritenuto pericoloso da chi apparteneva a un’enclave che si trasmetteva il benessere da generazione a generazione. E così, mentre Torino è rimasta immobile come una bella addormentata nel bosco, Milano ha aperto il mercato immobiliare, ha attratto grandi eventi (Expo), ha alimentato una forte presenza di capitalismo privato, ha dato dinamismo e internazionalità all’Università, ha creato incubatori forti per startup e fintech.
Ecco che oggi, mentre il pil pro capite di Milano supera di poco i 66.000 euro, quello di Torino si attesta intorno ai 35.600 euro (fonte Unioncamere-Tagliacarne). Botta di vita, il 16 giugno 2025 il “Sistema Torino” ha festeggiato i 10 anni del grattacielo Intesa Sanpaolo, rendendo omaggio a chi ha “svenduto” Sanpaolo-IMI e a chi lo ha “sottopagato”. Lo Spiffero ha scritto: “Torino ha perso la sua banca, ma in cambio ci ha guadagnato un grattacielo (…). La banca non è più torinese, anche se le hanno lasciato il nome appiccicato come un’etichetta sbiadita e una sede “legale”. In cambio, però, è arrivato un grattacielo firmato Renzo Piano. Altissimo, specchiato, bellissimo. Insomma, una di quelle cose che si mostrano in cartolina quando non hai più molto altro da far vedere. Un souvenir (…). In dieci anni, il grattacielo è diventato un simbolo. Ma simbolo di cosa? Di una città che si consola con la bellezza quando non ha più il potere. Di una finanza che ha lasciato la piazza per prendere quota. Di una Torino che si fa bella per gli eventi, mentre altrove si prendono le decisioni vere. E allora sì, guardatelo pure quel grattacielo. Saliteci, fatevi il selfie, godetevi l’arte e il jazz. Ma poi, quando scendete, chiedetevi: ne è valsa la pena? (…) Oggi Intesa Sanpaolo è un colosso con anima meneghina e silhouette torinese. E Torino? Ha perso la banca ma si gode la vista”.
Così oggi la città ha due simboli del suo “degrado”: quel che rimane del Palazzo del Lavoro, un’opera di Pier Luigi Nervi e Giò Ponti, e il grattacielo di Intesa Sanpaolo, opera di Renzo Piano. Certo il grattacielo è ancora integro mentre il Palazzo del Lavoro è ormai un rudere che non si ha neanche il coraggio di abbattere, ma entrambi testimoniano i danni che il “Sistema Torino” ha arrecato alla città, e di conseguenza ai torinesi. Molti torinesi si “assolvono” affermando “il problema sono le élite, non i torinesi”, ma poiché alle elezioni amministrative di Torino nel 2021 gli aventi diritto al voto erano 685.500 e la stima approssimativa dell’élite torinese allargata è compresa in una forbice tra le 9000 e le 10.000 persone, com’è possibile che l’1,46% della popolazione (Sistema Torino) tenga in “ostaggio” il rimanente 98,54% dei torinesi?
Per risolvere questo “paradossale enigma” ci può aiutare Étienne de La Boétie (filosofo, scrittore, politico e giurista francese del XVI secolo) che scrisse “Il Discorso sulla servitù volontaria (o Il Contro uno)”. La Boite sostenne che qualsiasi sistema di potere si afferma solo perché le persone non si oppongono; la servitù è dunque volontaria, basta smettere di obbedire perché il potere crolli. Ne consegue che se la maggioranza dei cittadini non si è mai opposta al “Sistema Torino” lasciandogli deliberatamente “fare il mazziere”, allora ci troviamo in una condizione di “servitù volontaria”. Dobbiamo prenderne atto! Dobbiamo rassegnarci al graduale ed inesorabile declino di un “sito” destinato, se nulla cambia, a diventare il “fantasma” di una città che si chiamava Torino!