Quando l'amore è malato (e fatale)

Gianluca Soncin, il cinquantaduenne compagno della ventinovenne Pamela Genini, quando capì di non riuscire più a convincerla a rimanere con lui, né con le buone né con le cattive maniere, la raggiunse a Milano e la massacrò con molteplici pugnalate tentando poi il suicidio. Già il 3 settembre 2024, dopo pochi mesi dall’inizio della loro relazione, Gianluca aveva aggredito la compagna nella casa di Cervia. All’ospedale, dove le diagnosticarono una frattura al dito della mano, Pamela dichiarò che aveva già subito violenza altre volte, ma, nonostante ciò, si rifiutò di sporgere denuncia. Il 9 maggio 2025 Pamela Genini chiamò la polizia perché Soncin cercava di entrare nell’alloggio della ragazza. Soncin disse agli agenti di essersi recato da Pamela, definendola «una sua conoscente», per «restituire una somma» di danaro ma di non essere riuscito «a prendere contatti con la medesima». Sentita dagli agenti, Pamela confermò il «rapporto di amicizia», senza far cenno né alla loro relazione, né alle violenze subite, e ancora una volta Pamela rifiutò di querelare Gianluca. L’ultimo intervento degli agenti, per soccorrere Pamela, è stato martedì 14 ottobre 2025 quando, entrati in casa, hanno solo potuto assistere alla sua morte e arrestare l’omicida Gianluca Soncin.

Sorge spontaneo chiedersi perché certe donne scelgano uomini violenti, perché accettino di essere trattate solo come oggetti e perché dimostrino omertà nel denunciare i loro violenti maltrattamenti. Molte donne credono di risolvere la difficoltà di essere donna, gettandosi nelle braccia di uomini che offrono l’illusione di essere delle bussole in grado di orientare il loro cammino per poi trasformarsi in aguzzini rapaci ed assassini. Analogamente: che cosa induce una persona, apparentemente “normo tipo”, a commettere un così orribile gesto per essere stato lasciato dalla compagna? Quasi sempre, a portare a tanto orrore è la perdita di una persona di cui si è innamorati e non la perdita di un’amicizia o di un affetto familiare.

Nel rapporto amoroso si attivano dinamiche biologiche, psicologiche e simboliche molto diverse rispetto all’amicizia e dall’affetto parentale. L’innamoramento stimola aree cerebrali legate alla ricompensa (dopamina), all’attaccamento (ossitocina, vasopressina) e al desiderio (testosterone, estrogeni). Per aiutarci a comprendere meglio le dinamiche psico-fisiche, che giocano un ruolo importante nella relazione d’amore tra due persone, sfogliamo il testo “Non è più come prima” scritto dallo psicanalista Massimo Recalcati: «Ogni amante porta con sé un progetto di claustrazione (confinamento in sé stesso, ndr) dell’amato. Ma questo progetto ha una peculiarità rispetto a tutti gli altri progetti di semplice soppressione possessiva della libertà. Quando c’è l’amore non si ama l’amato come un prigioniero, ma per la forza e la libertà che la sua immagine e la sua presenza suscitano in noi. (…). Eppure l’amante, nonostante tutto il suo amore per la libertà di chi ama, vorrebbe esserne anche il custode, l’unico detentore di quella libertà (…). È a questo punto che si apre il paradosso (della “La libertà prigioniera” di Sartre, ndr): come è possibile possedere l’Altro come una libertà assoluta e, insieme, prigioniera? Come può esistere una “libertà prigioniera”? Il sogno di ogni amante è custodito in questo desiderio paradossale: possedere l’Altro, ma solo in quanto libero. Ma come si può impossessarsi dell’Altro senza porre fine alla sua libertà?».

Recalcati riporta, come esempio del paradosso di Sartre, l’opera di Proust “Alla ricerca del tempo perduto”. Il protagonista, Marcel, al fine di esercitare un possesso assoluto sulla sua amata Albertine mette in atto un progetto di claustrazione. Presto però si accorge che la reclusione dell’amata non potrà mai realizzarsi in modo completo poiché l’Altro (Albertine) sfugge a ogni disegno appropriativo da parte di Marcel. Il punto più paradossale è che questa non disponibilità a sottostare a ogni progetto di assimilazione, emerge proprio quando Marcel riesce a mettere in atto la sua impresa di sequestro. Infatti, se l’amante perde l’attributo della libertà fa venire meno lo slancio del desiderio amoroso, ella non è più l’incarnazione di una trascendenza, ma viene cosificata in un oggetto qualunque: Albertine fatta prigioniera non è più l’Altro-soggetto che Marcel voleva possedere ma un Altro-soggetto verso il quale egli non nutre più alcun interesse. Se esiste un corretto equilibrio tra il desiderio di imprigionare il proprio partner e quello di lasciarlo libero, la coppia ha un normale rapporto amoroso. Se invece si crea uno squilibrio sbilanciato verso l’imprigionamento, la relazione di coppia si trasforma in un rapporto aguzzino-prigioniero che, se non corretta, può sfociare in violenza fino ad arrivare all’omicidio. Recalcati ricorda un incontro con i detenuti nel carcere di massima sicurezza di Opera. Ai detenuti macchiati di gravissimi reati avevano dato da studiare il suo libro titolato “Ritratti del desiderio” ed in particolare la parola “desiderio” nelle sue diverse declinazioni. Tra gli uditori si distinse un bel ragazzo poco più che ventenne dagli occhi scuri e profondi, ben vestito e capace di ragionare con intelligenza sui complessi temi della discussione. Quando congedandosi chiese all’amica che lo aveva invitato, la natura del delitto di questo ragazzo così sensibile e mite, la risposta lo raggelò: “Ha strangolato la fidanzata per gelosia”. Perché? Per “amore assoluto”? Ma l’amore assoluto esclude radicalmente la violenza, e questo è assolutamente vero! Eppure, per coronare la promessa del “per sempre”, la potenza dell’amore, per quel ragazzo, non aveva trovato una via giusta di realizzazione e, in un modo malato, si era manifestato solo come odio mortale, distruzione efferata, incapacità di accogliere lo spigolo duro della libertà dell’Altro.

Come possiamo amare infinitamente l’Altro senza varcare il confine della sua libertà? La gelosia, quando diventa patologica, intreccia la spinta appropriativa della passione amorosa e la violenza. La psicoanalisi non accetta infatti il luogo comune per il quale l’amore esclude per principio la violenza. A supporto di questa tesi ci sono le molteplici storie d’amore delle persone che vivono situazioni violente che sembrano scaturire proprio dalla passione amorosa. Il giovane detenuto aveva conosciuto l’amore e nel suo delirio lo aveva massacrato, proprio in nome dell’amore. È quello che avviene in ogni fondamentalismo. Non è forse eccessivo, smodato, incontenibile, l’amore di San Francesco per Gesù? Cosa lo porta a dilapidare tutte le risorse di famiglia, a perdere tutto, a fare un salto nel vuoto? Non è “folle” questo amore, l’amore di Francesco per il suo Dio? Recalcati sottolinea che sia la violenza su di sé sia quella sugli altri è assai frequente. Accade tra genitori e figli, e accade tra i componenti di una coppia quando uno dei due, non sopportando l’allontanamento dell’Altro, si sente autorizzato ad agire violentemente per ristabilire l’autorevolezza della propria immagine narcisistica infangata e umiliata.

Il femminicidio, e più in generale l’omicidio del proprio partner, non ha altra ragione psichica se non quella di utilizzare la violenza al posto di assumere su di sé il peso della propria solitudine e del proprio fallimento. La depressione, che spesso viene diagnosticata a motivo di questi atti violenti, non è altro che la difficoltà ad accettare e superare il proprio fallimento, il proprio insuccesso, la ferita subita dalla propria immagine narcisistica. Se non sono l’Io che credevo di essere (narcisismo), nulla ha più senso di esistere (depressione). Per questa ragione all’omicidio della vittima può seguire il suicidio del suo assassino. È evidente che l’assassino Gianluca Soncin, come tutti quelli che hanno commesso e commetteranno delitti di questa natura, non può essere classificato come “delinquente”. Qui ci si trova di fronte ad una patologia che rende l’individuo oggetto di “allucinazioni”, di distorsione della realtà, di incapacità di valutare “in tempo reale” le azioni e le loro conseguenze. Soggetti come Gianluca Soncin vanno isolati dal resto della società onde evitare danni per loro e per gli altri, ma non “ricoverandoli” in luoghi non congrui alla loro patologia.

Non è il carcere il “ricovero” corretto per questi assassini. L’infermità mentale non è un escamotage per “farla franca”; Questi soggetti devono essere studiati e se possibile curati nei Dipartimenti di Salute Mentale: mentre dal carcere qualcuno potrebbe uscire “per buona condotta”, da un appropriato “istituto ospedaliero” si esce “liberi” solo quando si è guariti dalla patologia, patologia diagnosticata e “monitorata” da un’equipe di medici specializzati e non da un tribunale. Avessimo seguito questa prassi, forse avremmo evitato che Angelo Izzo, condannato nel 1976 all’ergastolo per il massacro del Circeo, nel 2004 uscisse dal carcere per pentimento e buona condotta per poi, l’anno dopo, uccidere una madre di 47 anni e la figlia quattordicenne soffocandole con sacchetti di plastica. Prima che la patologia che conduce alla violenza diventi omicidio, è necessario che, con coraggio e senza remore, si intervenga. Se è lo stesso individuo violento a rendersene conto, deve riuscire ad avvicinarsi alle opportune strutture mediche per farsi curare. Se non riesce a farlo autonomamente, allora è chi gli vive vicino (parente, amico o conoscente) che deve aiutarlo a prenderne coscienza. Se poi l’Amata, che può essere la potenziale vittima, non riesce a convincere il potenziale omicida a curarsi, allora deve attivare tutti i comportamenti e azioni indispensabili per mettersi in sicurezza fino ad allontanarsi da lui prima che la patologia possa sfociare in azioni violente corporali al punto di farle perdere la vita.

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