INTERVISTA

"Il Piemonte torni a rischiare"

Sempre più vecchia e con scarso ricambio delle sue classi dirigenti, la regione ha perso smalto. La strada non è solo maggiore autonomia. Occorre puntare su giovani e innovazione. E smetterla col piagnisteo. Parla Giovannini, capo della multinazionale Guala

“Piangersi addosso non è un problema solo del Piemonte, ma di tutta l’Italia. Questo, ovviamente, non consola, né sminuisce le conseguenze: così non si infonde ottimismo né nelle giovani generazioni che rappresentano il futuro, né in chi vorrebbe venire ad investire in Italia. Questo, credo sia evidente a tutti. Ancor di più a chi vive molto all’estero e frequenta per lavoro diversi Paesi”.

Questa analisi impietosa, ma difficilmente opinabile, Marco Giovannini, presidente e Ceo nonché azionista del colosso multinazionale Guala Closures Group (29 stabilimenti in 16 Paesi di 5 continenti, posizione di leader a livello mondiale nelle chiusure per bottiglie e flaconi, dai superalcolici ai farmaci) la fa da Varsavia, dov’è appena arrivato dopo un lungo viaggio di lavoro in Cina e in Thailandia. Ad Alessandria, dove la Guala nacque nel 1954 come azienda famiglia e tutt’oggi conserva la sua “testa”, invece c’è arrivato una ventina d’anni fa, laurea in ingegneria meccanica e nucleare alla Sapienza, ma col management nel dna (è stato nel board di Ducati Motors, nel cda di Cassa Depositi e Prestiti e ha guidato Confindustria provinciale) e l’accento romano nella parlata diretta, chiara, spesso poco diplomatica e per questo divisiva, come spesso capita a chi dice quel che pensa.

E allora, da piemontese, come dice ormai di considerarsi, ingegner Giovannini sinceramente cosa pensa dei piemontesi nel mondo dell’impresa? Perché se questa regione è stata superata da molte altre del Nord le colpe saranno pure da distribuirsi, ma qualche cosa che non è andato per il verso giusto ci dev’essere?
“I piemontesi hanno tre grandi doti: è gente veramente seria che si innamora dell’azienda non si ferma davanti a nulla, gente tenace che non si spaventa di fronte alle difficoltà e ha davvero il concetto dell’industria, che credo condivida solo con l’Emilia-Romagna. Però secondo me hanno perso smalto nell’innovazione rispetto alle altre regioni del Nord, che sono passate avanti. E poi noto che c’è anche molto meno propensione al rischio d’impresa”.

Qualcuno potrebbe obiettare: facile dire queste cose dal ponte di comando di una multinazionale, quotata in borsa, con oltre mezzo miliardo di euro di fatturato. Le piccole e medie imprese, quelle che ogni politico cita come il tessuto vitale dell’economia italiana, quelle che hanno sofferto maggiormente la crisi e talvolta ne sono rimaste strozzate…
“Appunto. So di dire qualcosa che a molti non piacerà, ma il grande limite e la causa di non pochi problemi è stato proprio quello di aver ripetuto per anni che piccolo è bello. Abbiamo declinato questo concetto talmente tanto che nessuno o pochi hanno avuto la voglia di crescere. Non voglio fare il mio caso particolare, ma credo che chi è stato capace di gettare il cuore oltre l’ostacolo e prendersi rischi, andare in borsa e crescere fuori, oggi resiste meglio a ogni tipo di recessione, a qualsiasi tipo di difficoltà. Chi, al contrario, si basa sul fatto che continui ad esportare sfruttando svalutazioni o su una competitività temporanea è destinato purtroppo a entrare prima o poi in difficoltà”.

Se poi si considera che in molte nazioni europee il concetto di media impresa italiano equivale a quello di piccola per loro, il problema si aggrava. La soluzione?
“Purtroppo in Piemonte, così come nel resto del Paese, manca spesso lo spirito di squadra, così come la concezione di aggregazione facile. In passato ci sono solo due grandi esempi di aggregazione e sono arrivati dalle cooperative ed è stato concentrato soprattutto in una regione: l’Emilia-Romagna. Gli imprenditori, soprattutto i medio piccoli hanno una grandissima difficoltà verso il concetto di aggregazione. Confindustria ha tentato di favorire questi processi e continua a spingere in maniera anche molto importante sulle reti di impresa, ma le difficoltà sono ancora molte”.

Non crede che tra le cause del declino che ha segnato il Piemonte ci siano anche due fattori: lo spostamento da parte di non pochi imprenditori dalla produzione alla finanza e un concetto famigliare di azienda che talvolta non equivale a scelte strategiche necessarie?
“Guardi, io non giustifico nessuno, e non posso non notare in una parte dei miei colleghi imprenditori una, diciamo, propensione verso la finanza piuttosto che verso l’industria e lo sviluppo. Questo accade e giustifica in gran parte lo shopping che fanno molti investitori stranieri in Italia. Per quanto riguarda la proprietà famigliare, io non la vedo sempre negativamente, anzi: ha in sé valori enormi, come il concetto di welfare in base al quale molte volte si può mettere in discussione il profitto a fronte di un benessere diffuso per azienda e maestranze, sono valori etici e morali che sono da apprezzare. Altrettanto apprezzabile la visione di medio e lungo periodo, rispetto al breve in cui spesso si muovono le imprese quotate. Serve però che l’imprenditoria famigliare sia illuminata, che sappia valutare e capire che se al suo interno non ha la managerialità adeguata deve avere il coraggio di uscire, cercarla altrove”.

Intanto altrove vanno, spesso, le aziende. Il tema delle delocalizzazioni è sempre un problema per l’occupazione. Non c’è rimedio?
“Credo che il problema generale dell’Italia sia l’età media elevata della classe dirigente, e lo dico per primo a me stesso che tra poco compio 63 anni. A tutti i livelli c’è una scarsa propensione a dare fiducia ai giovani. Uno dei vantaggi degli altri Paesi è avere un’età media più bassa, che consente più rapidità nell’adattarsi alle nuove situazioni. Noi dobbiamo avere il coraggio di investire nei giovani, se manca ci avviamo verso la decadenza”.

L’immagine dell’Italia all’estero è sempre descritta in maniera positiva, quasi le difficoltà e le scelte politiche non fossero viste da fuori. Non si esagera talvolta con una narrazione che si scontra con la realtà?
“Premesso che l’Italia gode sempre di una grandissima reputazione, non ci dobbiamo dimenticare che siamo il secondo Paese manifatturiero d’Europa e questo vuol dire che qualcosa sappiamo fare. Però, è altrettanto vero che all’estero non si percepisce più il dinamismo che c’era in Italia sicuramente una ventina d’anni fa e forse che c’è stato per un breve periodo dopo la crisi, intorno al 2013, 2014. Oggi c’è di nuovo immobilismo. E lo si percepisce”.

Un’altra immagine, quella della grande industria, è stata legata negli ultimi anni a quella di Sergio Marchionne. Lei che idea s’è fatto sull’eredità che ha lasciato?
“Marchionne è stato un grande, ha fatto molto. Va detto, non per critica ma per constatazione, che le più grandi cose le ha fatte fuori dall’Italia. Credo che uno fa la storia, però poi ci dev’essere qualcuno che la continua e oggi non mi sembra sia stato raccolto un testimone e ci sia stato un trasferimento dei valori adeguato”.

Ingegner Giovannini torniamo alle difficoltà del mondo delle imprese, in Germania i Lander sono intervenuti a sostegno delle banche e, in alcuni casi, anche dell’industria. Lei ritiene che le Regioni, magari con quella maggior autonomia che anche il Piemonte ha richiesto, potrebbero giocare una ruolo simile, pur con tutte le differenze del caso?
“Devo dire che non sono mai stato favorevole alla regionalizzazione spinta. L’Italia è un paese che manca di coordinamento centrale in alcune decisioni strategiche. Più si parcellizza, più è difficile avere eccellenze. Vale nelle imprese, ma credo non solo lì”.

Industria 4.0: più vantaggi o più difficoltà?
“A me sembra che sul fronte del digitale, della robotica avanzata e dell’interconnessione dei dati molte parole siano spesso ancora più sul vocabolario anziché nel manuale del direttore di stabilimento. Industria 4.0 è uno strumento molto valido e importante, ma presuppone di crederci fino in fondo perché non è un passo facile mettendo in discussione l’organizzazione interna soprattutto nelle aziende di medie dimensioni. Poi necessita di un adattamento mentale enorme e qui torniamo al discorso dei giovani. Più si abbassa l’età più è rapido l’approccio con questi nuovi sistemi”.

A proposito di giovani, hanno anche riempito le piazze per il clima.
“Bellissima manifestazione di giovani per l’ambiente, ma se non facciamo ferrovie dobbiamo continuare per forza a far viaggiare le merci su gomma inquinando molto di più”.

Un modo per dire sì alla Tav.
“Quello che sta succedendo è ridicolo. Mettiamo a repentaglio le generazioni future. A questo punto difficile che gli altri continuino ad avere fiducia nel nostro Paese. Se non interveniamo immediatamente sulle grandi opere con dichiarazioni un po’ meno assolutiste da parte di chi ci rappresenta, noi né portiamo a casa soldi né, abbassiamo l debito, tantomeno attraiamo investimenti. Quel che sta accadendo sulla Tav non succederebbe in nessun altro Paese con la nostra necessità di sviluppo”.

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