GRANA PADANA

Lega, la secessione del Nord (e si prepara il dopo Salvini)

Sempre più in calo la credibilità politica del leader, anche tra i suoi. Sale la voglia (e la necessità) di un cambio di leadership. Le europee probabile Caporetto per il Capitano. Zaia: "Era meglio la Lega Nord, anzi la Liga". Ipotesi Calderoli traghettatore

Torna a soffiare sul Nord il vento della secessione. Stavolta, però, non è dalla Lega in un viaggio nel tempo all’indietro di trent’anni che si muove l’aria di separazione, bensì proprio all’interno di un partito che ormai non si riconosce più in sé stesso, o meglio in quello che credeva di essere e, soprattutto riconosce sempre meno il suo leader. Credevano di avere un otre pieno di consensi, ma quando recenti elezioni e ancor più freschi sondaggi lo hanno aperto è uscito, gelido e forte quel vento che Matteo Salvini, come Eolo, non riuscirà a placare. 

È un’Odissea, quella del partito più longevo, che sempre più in molti al suo interno, dalle figure di vertice ai militanti, sperano finisca presto per non finire male. Anzi peggio, perché il Carroccio salviniano, ormai un ossimoro vista la linea del segretario rispetto alle origini sia pure da adeguare ai tempi, va male ormai da un bel po’. E ormai, perfino i più cauti e avvertiti dell’uso delle parole, non ne fanno mistero, così come non nascondono aspre critiche verso chi conduce una forza politica che, proprio per queste esternazioni, si fa fatica a definire ancora come l’ultimo partito leninista. Caratteristica su cui Salvini non può più di tanti fare conto. Così come non può cercare di cavarsela con narrazioni rassicuranti. 

Ieri, nell’ultimo giorno della scuola di formazione politica, ha raccontato che la prima telefonata del mattino l’ha ricevuta da Luca Zaia “per raccontarmi cosa stiamo facendo insieme”. Peccato che, il giorno prima, altre parole erano state quelle del governatore del Veneto, pronunciate a Treviso in quel Nord-Est cui si guarda, con più d’una ragione, per capire quel che succederà alla Lega dopo il voto europeo. “Noi nasciamo per difendere i veneti. Abbiamo fatto una federazione con le altre regioni si chiamava Lega Nord. E a me piaceva di più”. Parole come pietre quelle del Doge, che nella chiosa a quel che più d’un nostalgico ricordo è un nuovo manifesto per un rinnovato partito – in primis proprio l’aspetto federativo – aggiunge un carico da undici nella briscola dove il mazzo sta sfuggendo al segretario: “Anzi, a dirla tutta, era più bello Liga”. Già, la Liga Veneta, quella di San Marco, della locomotiva economica del Paese, dei militanti e degli elettori gelidi di fronte al basco da paracadutista del generale Roberto Vannacci, ma ai quali si scalda ancora il cuore al ricordo del Tanko, il trattore mascherato da carroarmato dei Serenissimi. Guerra non dichiarata, ma già di trincea in attesa dell’assalto di giugno, quella che ricompatta ulteriormente all’interno della Lega ogni giorno più sbigottita dal suo Capitano un Lombardo-Veneto critico e allarmato, tanto che nella stessa sua regione Salvini vede crescere fronde e atteggiamenti lontani dal sincero e convinto assenso alla linea. 

Spiegano che la sua credibilità è ai livelli dell’acqua alla sorgente del Po in agosto, che ormai ogni suo affermazione cozza con l’esatto contrario sostenuto di recente e quindi rinfacciabile come gli avversari non perdono occasione di fare. A ogni affermazione esce dagli archivi dei social una sua verrsione opposta. Raccontano della rabbia che sale in chi sa bene come sia proprio il Nord e l’impronta federalista, pur accuratamente sfrondata da non più riproponibili orpelli scenografici bossiani, il core business, anzi il cuore pulsante della Lega che sta sfuggendo. Riferiscono dei mal di pancia che già aveva provocato l’idea del Capo di candidare Vannacci, finiti in coliche a sentirlo difendere ancor più il generale e rafforzarne l’ipotesi di mandarlo in Europa quando si è sparsa la notizia dell’indagine a suo carico per presunte spese gonfiate a Mosca. Già, proprio a Mosca, pure quell’assist ci mancava a Salvini che già se n’era uscito affidando ai giudici di Vladimir Putin il chiarimento sulla morte del dissidente Aleksej Navalny.

Insieme a Vannacci a Bruxelles credeva, invece, il segretario di poter mandare proprio Zaia, così da risolvere la questione del terzo mandato negato dagli alleati al Doge e ad altri governatori. Da Venezia è arrivato un due di picche, partita affatto chiusa per lo stratega di via Bellerio alla guida di un partito che quando va bene i sondaggi lo danno fermo, ma non di rado l’indice cala di decimale in decimale e l’esito del voto di giugno sarà il Piave. Sotto l’otto per cento, fatale Caporetto per Salvini che rischia di vedersi sorpassato dall’alleato forzista dato per defunto insieme al fondatore, in realtà quasi alla pari con la Lega. La stessa operazione di sbarco al Sud, appaltando il partito al solito notabilato consunto e pronto a muoversi a seconda del vento, è miseramente e prevedibilmente fallita, confermando ulteriormente come sia e resti il Nord il bacino delle istanze e dei consensi verso il partito cui, il leader, non ha mancato di togliere proprio il riferimento geografico dal simbolo. Ma è lì, nel Nord, da Est a Ovest, che la Lega può avere un suo futuro ed è lì che bolle la pentola del cambiamento in quel federalismo tra regioni che ancora prima di tornare ad essere il fulcro dell’azione politica è, oggi, l’intreccio di assi su cui reggere la svolta dopo la assai probabile débâcle europea. 

Di un “dopo” ormai si parla con sempre maggiore certezza e non meno auspici nel partito. Dopo il voto, che vorrebbe dire dopo Salvini. Il ritorno a prima non sarà l’ennesima operazione nostalgia, ma un recupero dei fondamentali il cui abbandono a favore della svolta nazionalista e eccessivamente destrorsa ha significato la via del tramonto. E al giorno successivo alle elezioni già si guarda, nel partito, lavorando a un piano non facile, ma ormai da molti ritenuto inevitabile. Reggere l’urto di un passaggio comunque traumatico non sarà cosa da poco. E pochi, oggi, paiono quelli cui affidare quel ruolo. Forse uno soltanto, Roberto Calderoli, artefice dell’ultimo brandello di autonomia da issare a vessillo sul ponte tra il vecchio e il nuovo corso. Una reggenza da cui aprire la strada a un nuovo leader che difficilmente potrebbe essere Zaia, determinato a non mollare la sua regione, così come Massimiliano Fedriga che oggi presidia il Friuli-Venezia Giulia, ma anche la Conferenza delle Regioni. Non ad escludendum, ma per il ruolo politico di capogruppo ancor prima di quello di segretario regionale del Piemonte, Riccardo Molinari potrebbe raccogliere quel che resta del partito, per accompagnarlo verso un ridisegno ormai inevitabile per la sua sopravvivenza e una risalita, verso il Nord e verso i consensi perduti proprio lì.