Una leadership in discussione

Nonostante gli esiti infausti delle elezioni amministrative e la sconfitta del referendum, che avrebbe dovuto rappresentare una occasione di rivincita rispetto alla tornata delle Amministrative, nel Pd continua ad essere maggioritaria la posizione di coloro che ritengono che alla leadership di Renzi non esistano alternative. A Renzi non può che succedere lo stesso Renzi, sia alla guida del Partito che di Palazzo Chigi.

La sede per verificare tutto ciò avrebbe dovuto essere il Congresso, ma è  stato rinviato, così  come è stata rinviata la riflessione sulle cause della sconfitta referendaria e sul renzismo. Anche i consigli che alcuni amici hanno rivolto a Renzi di prendersi un periodo di riposo e non tornare immediatamente nell’agone politico sono stati lasciati cadere. Non solo, ma in queste ore l’unica preoccupazione è quella di tornare alle elezioni al più presto anche a costo di delegittimare il governo Gentiloni.

Le domande perché e per colpa di chi abbiamo perso sono state completamente rimosse. Ma se non si avrà il coraggio di guardare in faccia alla realtà e capire per quale una parte degli elettori di sinistra hanno voltato le spalle al Pd, non vi sarà riscossa possibile.

In questi tre anni Renzi, anche in forza della novità che aveva rappresentato, ha avuto il potere e la possibilità di fare esattamente ciò che ha voluto. Il risultato delle primarie e, successivamente, l’esito delle elezioni europee gli hanno consentito di non subire alcun condizionamento. Ha cambiato le politiche del lavoro, incentivato le assunzioni previste dal Jobs Act, assunto una serie di provvedimenti per far ripartire la domanda interna ma, nonostante una congiuntura favorevole (misure decise da Draghi, svalutazione dell’euro) non è riuscito a far ripartire la nostra  economia a meno che non si giudichi positivamente una crescita che è  la più bassa d’Europa. Con ritmi di crescita più  o meno uguali, Letta venne sfrattato da Palazzo Chigi proprio da Renzi.

Ha imposto una riforma costituzionale che gli elettori hanno bocciato e, incurante dei consigli che pure gli erano stati dati, ha deciso di personalizzare e politicizzare il referendum, trasformandolo in una prova generale nei confronti della sua persona e del governo e annunciando l’Apocalisse se avesse vinto il No. Con lui si sono stati schierati i maggiori giornali, la tv pubblica, alcuni importanti “opinion leader”, gran parte di quelle Associazioni che pure aveva delegittimato. Sappiamo come è finita, con una Caporetto e con una partecipazione al voto che ha accentuato le dimensioni della sconfitta della riforma costituzionale, di Renzi e della sua politica.

Ha imposto l’Italicum e l’ha fatto votare a colpi di fiducia e, pur di ottenerne la approvazione, ha spaccato il Partito. L’ha definito la migliore legge elettorale del mondo, in polemica con coloro che lo hanno criticato perché avrebbe indebolito rafforzato il ruolo del governo, indebolito il ruolo del Parlamento e degli Organi di Garanzia, sottratto al cittadino-elettore il potere di eleggere i propri rappresentanti.

Ha gestito nel modo che sappiamo la crisi di alcune banche, ultima in ordine di tempo quella del Mps. Il ritardo con il quale il governo è intervenuto per evitare che la crisi di questa banca potesse condizionare l’esito del referendum, ha contribuito a rendere maggiore è più pesante l’onere finanziario che graverà sullo Stato e sui contribuenti italiani. Questo mentre il premier continuava a dichiarare che investire i propri risparmi in questa banca sarebbe stato un “affare”.

L’esito del referendum che nelle intenzioni dell’ex premier avrebbe dovuto mettere il sigillo definitivo sul renzismo ne ha invece decretato il fallimento. Da qui bisognerebbe partire per ridiscutere la leadership, l’identità, la politica del Pd ma dubito che vi sia la volontà di farlo.

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