ANALISI

Un declino lungo quarant'anni

È dagli anni Ottanta che Torino e il Piemonte perdono colpi. Un ritardo da colmare tornando a investire sugli asset fondamentali. La miopia della politica e la scommessa dell'innovazione. Parla il prof. Chiaia, luminare del Politecnico e amministratore di Tne

“L’immagine della crisi è quella di un fuoco che si sta spegnendo. Noi dobbiamo cercare di tenerlo vivo, alimentarlo. Serve ossigeno e materiale da bruciare”. Suona come un paradosso sentirlo dire da chi è stato sui luoghi dove le fiamme hanno devastato: dalla Cupola del Guarini al Teatro Petruzzelli di Bari e, adesso, nel gruppo di studio di altissimi livello incaricato di elaborare soluzioni per il restauro della Cattedrale di Notre Dame. Bernardino Chiaia, professore ordinario di Ingegneria Strutturale, Edile e Geotecnica al Politecnico dove coordina il Siscom (Center Safety of Infrastructures and Construction) dal luglio dello scorso anno è anche l’uomo chiamato a contribuire ad alimentare il fuoco della ripresa dalla sua postazione di amministratore unico di Tne, la società in gran parte pubblica costituita nel 2005 per mantenere nell’area di Mirafiori e negli enormi spazi dismessi un polo di attività produttive.

Missione non facile, anche per le recenti vicissitudini che hanno rischiato di veder letteralmente fallire Tne, quella dell’accademico barese di nascita e da oltre vent’anni ormai torinese. Voce autorevole e schietta, approccio tecnico e dunque pragmatico, insieme all’esperienza diretta accresciuta in quest’anno al vertice di una società al contempo protagonista e termometro di quel mancato sviluppo di cui Torino e il Piemonte continuano a pagare un prezzo nient’affatto basso.  

Professore, la situazione ormai è chiara da tempo e nessuno lo nega: la città e, spesso come diretta conseguenza la stessa regione, faticano a superare la crisi, ad uscire dalla stagnazione. Diverse sono però le indicazioni circa le cause. Tutta colpa della crisi globale di dieci anni fa?
“Da non torinese, arrivato dal sud e quindi con una visione della città riferita agli ultimi 25 anni noto una questione essenzialmente di ritardo. Torino su certe trasformazioni partite dagli anni Ottanta si è mossa tardi. Guardiamo il calo demografico: è incominciato tra il 78 e l’80 e il trend non si è mai invertito. Dire adesso che tutta la colpa è della crisi del 2008 è un po’ azzardato. Il problema era incominciato prima. Quando si è iniziato con un nuovo paradigma industriale a cavallo degli anni Ottanta e Novanta con l’arrivo della grande informatica, già lì Torino si è mossa in ritardo”.

E forse non si è mossa per tempo e nella maniera adeguata anche quando si profilava l’abbandono da parte di Fiat e una prospezione assai meno legata a Torino del gruppo. Quanto ha pesato anche questo? Insomma non è che ci si è cullati nella certezza di una one company town che ormai era sempre meno tale?
“Questo sì. Ma parlando di Fiat credo vada ricordato come sia lampante che Sergio Marchionne nonostante fosse un ottimo manager, fosse assolutamente negativo sulle prospettive dell’auto elettrica. Da un punto di vista tecnico aveva ragione: non ha ancora senso l’elettrico, ma ce lo sta imponendo una politica ambientale, una necessità di cambiare il parco macchine e motivazioni di marketing. Detto questo, Fiat era partita tardi, confermando quel ritardo che vedo sempre a Torino. Oggi Fca sta facendo velocemente retromarcia, entrando in quel comparto. Ma allora non si è avuta la capacità di percepire che il mondo voleva andare in quella direzione”.

Ricorda sicuramente il Ge.Mi.To, acronimo diventato sinonimo di lamento per Torino. Il vecchio trinagolo industriale, anche lì non si è compreso che stava cambiando la geometria dello sviluppo?
“Va osservato che la posizione di Torino è un poco svantaggiata rispetto a Milano o all’Emilia e al Veneto. Ma questa presa di coscienza andava fatta subito. Ci si sveglia adesso sulle grandi dorsali, sulle linee ferroviarie con Genova o con la Francia. Eravamo lo spigolo ovest del triangolo e non ci siamo resi conto che avremmo dovuto guardare noi più a ovest o comunque in maniera diversa rispetto a quella geografia”.

Il ritardo non è senza padri. La politica non ha assolto al suo ruolo di programmazione e le imprese hanno preferito non rischiare?
“Non c’è dubbio su queste responsabilità condivise. Farei una critica anche alle Università cui io appartengo. Anche noi per tanti anni abbiamo pensato che l’innovazione potesse essere fine a se stessa. Abbiamo fatto l’incubatore, cose bellissime, ma non le avevamo messe a sistema con la produzione. La storia insegna che l’innovazione è sterile se non ha una ricaduta economica e sociale. Adesso si sta cambiando, il Politecnico e l’Università procedono verso un’integrazione completa. E il Competence Center è una delle testimonianze concrete di questa svolta”.

Il Competence Center è uno dei fiori all’occhiello di Tne, ma la società che lei guida da poco più di un anno, per vicende precedenti ha rischiato di dover portare i libri in tribunale. Come va adesso?
“La società non è fallita ed è in concordato. Quindi abbiamo una duplice missione. La prima: restituire i soldi ai creditori e mi piacerebbe che al termine del mio mandato la società arrivasse a un pareggio di bilancio, cosa mai successa. La seconda non certo meno importante, anche se più difficile, assolvere a un ruolo nell’economia e nella crescita della città e della regione. Per spiegarmi: la soluzione contabile la si potrebbe anche ottenere vendendo i capannoni per farne magazzini, ma noi vogliamo dare un valore aggiunto importante. Serve pil e serve occupazione”.

La classificazione di area di crisi complessa dovrebbe portare 150 milioni, come ribadito dal premier Giuseppe Conte nella sua visita. Come va colta questa opportunità?
“Quel denaro, se arriverà, dovrà essere molto ben canalizzato su uno o al massimo due progetti importanti. La cifra non è grande. Ben venga, ma se la si disperde è come non avere niente”.

Industria 4.0 sta funzionando.
“Molto bene in alcuni settori. Finalmente qualche segno di risveglio nella manifattura si è visto grazie a questa misura. Ci sono, però, comparti ancora lontani, come per esempio il mio, quello dell’ingegneria civile e delle infrastrutture: è molto impermeabile a questa innovazione. Diciamo che è un’iniziativa di successo, ma non per tutti i settori”.

Lei ha indicato tra le colpe maggiori della crisi il ritardo del Piemonte. Ci sono state anche scelte sbagliate o non fatte?
“Sì. Penso all’idroelettrico. Il Piemonte era un’eccellenza assoluta anche a livello europeo. Quella è l’energia più pulita in assoluto, ma per anni la politica non ha considerato minimamente questo settore facendo invecchiare gli impianti. Nel frattempo si sono date sovvenzioni alle energie rinnovabili dove non si è creato alcun know-how italiano, si sono sovvenzionate installazioni ma non produzioni: il fotovoltaico così come l’eolico è tecnologia cinese, tedesca, danese. Un errore clamoroso. Adesso la Regione si è resa conto di questo problema e mi pare che voglia intervenire”.

La convince il Piano per la competitività annunciato dal governatore Alberto Cirio che ne ha affidato la regia a Claudia Porchietto?
“Se questo piano è caratterizzato sugli asset principali e si concentra nelle aree dove possiamo avere i moltiplicatori più importanti di produzione e di occupazione sarà molto utile. Dovrebbe, però, avere una visione almeno ventennale. E lì sta la difficoltà della politica. Se dobbiamo stare attenti al fatto che tra due anni si vota a Torino, tra quattro in Piemonte allora non andiamo da nessuna parte. Porchietto ha lo standing per fare un ottimo lavoro e ci sono molte capacità ed esperienze in grado di darle una mano”.

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