Governare con classe (dirigente)

Dopo la sbornia populista, demagogica e spietatamente anti politica, forse è nuovamente possibile riparlare di classe dirigente. A livello nazionale come a livello locale. E l’occasione per centrare questo obiettivo è sempre dietro l’angolo perché in Italia, come ben sappiamo, si vota puntualmente ogni anno. Soprattutto per le varie e diverse elezioni locali. Ma, quando si parla di classe dirigente politica, inesorabilmente si pensa a quella della prima repubblica, quando la qualità e l’autorevolezza – pur senza beatificare quella lunghissima fase storica – della classe politica era un fatto talmente scontato che non richiedeva particolare approfondimento o discussione.

Ora, avendo sperimentato la stagione della seconda repubblica, per non parlare di quella contemporanea, cresce la domanda e l’esigenza di riconsegnare la politica non ai professionisti della politica ma, semmai, alla politica come professionalità. Perché dopo avere sperimentato concretamente che cosa ha significato l’inesperienza al potere, anche il più incallito nuovista che voleva distruggere tutto ciò che era riconducibile al passato, forse si è ricreduto, seppur lentamente. Perché il vero nodo non è quello di rimpiangere il passato, che come tutti sanno è archiviato e non più riproponibile, ma di innescare un processo che sia capace di riconsegnare gli enti locali, e poi il governo nazionale, non a sprovveduti che esaltano la loro estraneità a qualsiasi cultura politica, a qualsiasi pensiero politico, a qualsiasi esperienza politica organizzata e via discorrendo. Ma, al contrario, a uomini e donne che sappiano cosa significa governare e che abbiano una visione politica della società e del proprio territorio.

La “fantasia al potere”, versione aggiornata degli slogan del lontano '68 dello scorso secolo, non può durare a lungo. E lo abbiamo potuto verificare in questa stagione politica, iniziata con il “vaffa day” di Grillo e conclusasi con la “rottamazione” di renziana memoria. Una prassi, che poi si è rivelata come un puro disegno di potere, che ha contribuito prepotentemente a distruggere la politica della competenza, della esperienza, dei riferimenti culturali e della rappresentatività territoriale e sociale. E, di conseguenza, una politica fatta di fedeltà al capo o al guru, di radicale estraneità rispetto a tutto ciò che era riconducibile al passato e dove l’inesperienza veniva elevata a criterio fondamentale per segnare una netta e radicale discontinuità rispetto a chi ti aveva preceduto. Purtroppo i risultati sono sotto gli occhi di tutti. E i peggiori vizi del passato sono progressivamente riaffiorati – dal trasformismo politico alla incapacità di governo, dall’esclusivo obiettivo di conservare la poltrona all’assenza di qualsiasi riferimento ideale nell’orientare e condizionare le singole scelte politiche – sino ad impadronirsi definitivamente del dibattito politico e, soprattutto, dei comportamenti politici.

Ora, forse, si può invertire la rotta. A partire proprio dagli enti locali, cioè dai comuni. Per dirla con Luigi Sturzo, fondatore del popolarismo di ispirazione cristiana, dalla “palestra democratica per eccellenza”, cioè dai comuni appunto. E quindi anche da Torino e dai vari comuni andranno al voto nella primavera del 2021 nella provincia di Torino, da Ciriè a Pinerolo a molti altri centri medio grandi del nostro territorio. Perché ormai abbiamo capito, e soprattutto sperimentato, che non è più sufficiente sbandierare la propria estraneità a qualsiasi cultura politica e a qualsiasi professionalità della politica per diventare buoni e capaci amministratori. La novità è importante ad una condizione: che sappia coniugarsi con la competenza, la capacità e il radicamento e la rappresentatività sociale e culturale. Altrimenti il tutto si traduce in un mero esercizio di propaganda. Che dura, appunto, per una breve stagione producendo guasti inenarrabili.

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