Guerra da talk show

Esaurito il “lucroso” filone d’oro Covid-19, i talk show ne stanno esplorando un altro: la guerra dei russi contro gli ucraini. Tutte le sere per ore, stimolati da “accattivanti” conduttrici/conduttori, gli ospiti dei vari programmi dibattono su Putin, Zelensky e sulle ragioni e i torti della guerra. Fa sorridere ascoltare ex militanti e fondatori di organizzazioni di estrema sinistra degli anni ‘60 (Nuova Resistenza, Lotta Continua, …), che oggi sono diventati autorevoli giornalisti e professori universitari, scagliarsi contro chi fornisce armi agli ucraini per poter difendere la propria terra dagli invasori. Invasori russi che non stanno difendendo con le armi il popolo ucraino dal capitalismo selvaggio, in ossequio alla Rivoluzione d’ottobre che mise fine alla pluricentenaria monarchia degli zar, ma che, in ossequio al nuovo zar, stanno conducendo una guerra di conquista di stampo imperialista. Come scrive Ezio Mauro in un suo editoriale: “…oggi Mosca è diventata la capitale dell’autoritarismo conservatore, del nazionalismo reazionario e soprattutto del dispotismo autocratico”.

Tutto ciò ci fa riflettere sulla natura della guerra. Le guerre esistono da sempre e tutte le guerre finiscono con vincitori e vinti e, come sempre, sono i vincitori che decidono i destini dei popoli sconfitti ed i confini degli Stati. Come non ricordare “vae victis” (guai ai vinti), la celebre esclamazione attribuita a Brenno, capo dei Galli, che invasero Roma nel IV secolo a.C. dettando ai romani le loro pesanti condizioni di “pace”. La guerra scatena sentimenti contrastanti e, proprio per questo motivo, il tema è stato dibattuta da diversi filosofi. Penso che una carrellata, che copre il periodo dal 600 a.C., con Anassimandro, ai giorni nostri, con Severino, possa darne evidenza. Anassimandro (610 a.C.-546 a.C.) afferma che l’ingiustizia nasce dall’opposizione degli esseri finiti, dal loro volersi distaccare dall'infinito (apeiron), "innocente" e "pacifico", con il risultato di essere condannati ad un’incessante guerra che oppone un contrario all’altro in una lotta in cui uno vince e domina sull’altro. Per Eraclito (535 a.C.-475 a.C.) “Bisogna sapere che polemos (il conflitto) è presente in tutte le cose, che la giustizia è conflitto e che tutto accade necessariamente come frutto di una lotta”. La pace c’è perché c’è la guerra e questa genera una società gerarchicamente ordinata e giusta. Platone (428 a.C./427 a.C.-48 a.C./347 a.C.) ritiene che la politica debba educare i cittadini sia alla pace che alla guerra. Egli considera che la guerra sia uno strumento per la politica, un mezzo di governo, da non condannare a priori, che serve a stabilizzare l'ordine e a perdurare la pace nella polis. Per Cornelio Nepote (100 a.C.-27 a.C.): “Igitur qui desiderat pacem, praeparet bellum” (Chi aspira alla pace, prepari la guerra). Concetto condiviso da Cicerone (106 a.C.-43 a.C.) che scrisse: “Si pace frui volumus, bellum gerendum est” (Se vogliamo godere della pace, bisogna fare la guerra).

Sant’Agostino (354-430 d.C.) afferma che la guerra è giustificabile quando rientra nei decreti della Provvidenza divina. Anche San Tommaso (1225-1274 d.C.) definisce “giusta” la guerra purché decisa da un’autorità legittima che intraprende la guerra per una giusta causa e per perseguire giusti fini. Erasmo da Rotterdam (1466/1469-1536) considera l’uomo in guerra peggiore delle bestie e si domanda “cosa mai spinga, non dico i cristiani, ma gli uomini tutti, a tale punto di follia da adoperarsi, con tanto zelo, con tante spese, con tanti sforzi, alla reciproca rovina generale della guerra. Che altro infatti facciamo nella vita se non la guerra o prepararci alla guerra?”. Machiavelli (1469-1527) considera la guerra uno strumento di governo, unico obiettivo del Principe. La guerra “è talmente importante che mantiene al potere non solo quelli che principi sono nati, ma molto spesso fa sì che semplici cittadini possano diventarlo; al contrario, i principi che si sono dedicati più ai piaceri della vita che all'arte militare hanno perso il loro potere”.

 Ugo Grozio (1583-1645) e Samuel von Pufendorf (1632-1694), giusnaturalisti, considerano la guerra “giusta” se finalizzata a difendersi da un attacco esterno, ad ottenere ciò che è dovuto o ad avere un risarcimento convenuto. Inoltre, la guerra difende diritti già costituiti, reintroduce quelli violati e ne sancisce di nuovi dove assenti. Per Hobbes (1588-1679) lo stato di guerra è lo stato di natura dove si scatena il “bellum omnium contra omnes” (la guerra di tutti contro tutti), dove ogni uomo, nel suo stato animale, agisce come un lupo contro gli altri uomini (“homo homini lupus”). La guerra è l’essenza naturale degli uomini. Solo la paura della morte convince a ricercare la pace assicurata dalla forza del potere assoluto del monarca. Voltaire (1694-1778) asserisce che “la carestia, la peste e la guerra sono i tre ingredienti più famosi di questo mondo». Solo carestia e peste “ci vengono dalla Provvidenza, la guerra, dalle lotte di religione e dalle stolte pretese dinastiche dei principi”. Montesquieu (1689-1755) accetta la visione di Hobbes della natura selvaggia dell'uomo ma è convinto che in lui sia presente in maggior misura il principio di pace piuttosto che quello di guerra, almeno all’inizio. “Non appena si costituiscono in società, gli uomini perdono il senso della loro debolezza, cessa l’uguaglianza che esisteva fra loro e ha inizio lo stato di guerra. Ogni singola società diviene consapevole della propria forza, il che dà origine a uno stato di guerra fra nazione e nazione”.

Kant (1724-1804) condivide l’idea che nell’uomo esista un primordiale stato di natura dove egoismo e istinto di sopravvivenza si manifestano con la guerra. Per uscire da questa condizione occorre creare uno Stato mondiale federale dove ogni popolo vive liberamente e ogni conflitto viene superato con l’abbandono degli egoismi nazionali. Solo le terribili conseguenze della guerra possono condurre gli uomini verso la pace perpetua. Fino ad allora è necessario evitare ogni tipo di guerra che miri alla distruzione totale dell’altro poiché “nessuno Stato in guerra con un altro deve permettersi comportamenti ostili che, nella pace futura, renderebbero impossibile la fiducia reciproca”. Hegel (1770-1831) sostiene che dalla dialettica fra gli Stati si sviluppa l’intera storia umana e, in questa opposizione, la guerra garantisce la risoluzione delle controversie. Essa esprime un alto valore morale perché come “il movimento dei venti preserva il mare dalla putredine, nella quale sarebbe ridotto da una quiete durevole” così “preserva i popoli dalla putredine cui sarebbero ridotti da una pace duratura o addirittura perpetua”. Non esiste alcun giudice o pretore che possa esaminare le pretese degli stati. Il solo giudice o arbitro è lo Stato universale, cioè la Storia, che illustra come la guerra abbia fatto parte in maniera più o meno prepotente degli affari umani e di come sia stata la risolutrice dei conflitti tra gli imperi prima e tra gli Stati poi.

Nietzsche (1844-1900) pensa che la guerra sia un modo per affermare la potenza. Per Nietzsche la vita è una conseguenza della guerra, la stessa società è un mezzo fatto per la guerra. Nell’uomo convivono istinti diversi, con fini altrettanto distinti, sempre in lotta fra loro. La volontà di potenza è l’unica volontà che esprime tutto questo mondo variegato e molteplice di istinti. Il filosofo Emanuele Severino (1929-2020), durante una lezione in un liceo di Napoli, alla domanda se può esistere una guerra giusta rispose: “No, non esiste una guerra giusta”. Ma poi precisò che, per procedere con un po’ di ragionamento giustificato, ci si debba innanzi tutto chiedere che cos’è “giustizia”. “Penso che siamo fatti tutti della stessa pasta, di fronte a certe scene tutti proviamo disgusto, orrore. La guerra ci fa orrore (…), orrore per la vergogna della guerra, però attenzione a non fidarsi del sentimento d’orrore, perché il disgusto per la guerra è un qualche cosa che c’è oggi, ma non c’era ieri, non c’è stato tante volte nel corso della storia dell’uomo. (…) Ma il disgusto è qualche cosa che ora c’è, ora non c’è. Il sentimento di deprecazione ora c’è, ora non c’è. Quindi l’invito è di provare a ragionare. E ragionare vuol dire innanzi tutto chiedersi che cos’è giustizia”.

 Alla luce di quanto ci dicono i filosofi, abbiamo ancora il desiderio di ascoltare quello che ci viene quotidianamente e ripetutamente esposto nei talk show? Probabilmente approfondimenti ad hoc con voci competenti ci aiuterebbero meglio a capire e a farci una nostra opinione ragionata, ma la competenza spesso non fa spettacolo!

print_icon