ECONOMIA & POLITICA

Il protezionismo targato Lega non serve all'automotive

La proposta del capogruppo alla Camera Molinari: imporre agli enti locali di acquistare vetture prodotte in Italia. Un'autarchia senza senza. E tutte le auto tedesche costruite con i componenti italiani? Una ricetta non solo inutile ma persino dannosa

“Imporre alle pubbliche amministrazioni l’acquisto di auto di servizio prodotte in Italia”. Anche il protezionismo è made in Italy e prende forma in un emendamento alla legge di Bilancio presentato alla Camera dal capogruppo della Lega Riccardo Molinari. Per favorire lo sviluppo dell’automotive nazionale, infatti, il deputato salviniano ritiene necessario che Comuni, Province, Asl, Regioni comprino o noleggino auto realizzate lungo lo Stivale. Possibile? Impresa improba dal momento che per l’acquisto di beni e servizi le pubbliche amministrazioni devono bandire una gara nella quale vince chi presenta le condizioni migliori per l’ente in questione, che sia italiano o cinese, giapponese o brasiliano, turco o spagnolo. È il mercato bellezza! Quello stesso mercato con cui si confrontano quotidianamente le imprese che la Lega si prefigge di aiutare.

Il provvedimento prevede inoltre incentivi per imprenditori e imprese che acquistino anche in locazione finanziaria veicoli ecologici (motori a metano, gas naturale liquefatto, ibridi, elettrici, termici Euro 6) prodotti in stabilimenti italiani. L’emendamento propone al Governo di stanziare 300 milioni per il 2021 e altrettanti per l’anno successivo che si trasformeranno in un  contributo pari al 10 per cento del costo del veicolo fino ad un massimo di 8.000 euro.

A ben vedere, però, oggi l’unica azienda automobilistica “italiana” è la DR, dalle iniziali del suo fondatore, Massimo Di Risio, anche se va detto che importa pezzi principalmente dalla Cina che poi assembla in Italia. Dunque vale per essere considerata italiana? Chissà. Ci sono poi le auto tedesche e del Nord Europa che si affidano ormai da anni alla componentistica italiana e quindi si riforniscono da un indotto che negli anni ha saputo diversificare i propri committenti emancipandosi da mamma Fiat. Quelle auto un po’ di tricolore ce l’hanno. Che facciamo, ci mettiamo pure loro? Mah.

“La norma – spiega Molinari – ha lo scopo di sostenere un comparto industriale che in Italia conta su circa trecento aziende e occupa oltre 250mila addetti partecipando con percentuali significative al pil e all’export”. E proprio a proposito di esportazioni va detto che al 2019 sono 2.200 le aziende di componentistica in Italia (di cui il 43,5 per cento sono in Piemonte) e proprio sull’export fondano gran parte del proprio fatturato: vendono freni, motori, cambi, vetri, silenziatori. Il primo mercato importatore è la Germania e forse è per questo che Matteo Salvini, quando era al Viminale era solito circolare con un’Audi fiammante.

Veniamo alla nascitura Stellantis: il gruppo ha radici ben piantate sul suolo italiano, ma produce in tutto il mondo e dunque qui sarebbe difficile scegliere: la 500 elettrica, per esempio, è prodotta a Torino, ma la 500 classica vede la luce in Serbia e la 500L – quella large – in Polonia. Un bel ginepraio. E poi Stellantis potrà essere considerata ancora un’azienda “italiana”? La Exor, cassaforte della famiglia Agnelli, è il primo azionista con il 14% delle quote, ma la maggioranza assoluta è ben lontana e dentro ci sono i Peugeot, lo Stato francese, i cinesi di Dongfeng. Nel consiglio di amministrazione ci sono rappresentati quasi tutti i cinque continenti (mancano solo Africa e Oceania).

print_icon