GRANA PADANA

Salvini nomina i suoi nuovi vice, e s'incazza pure il mite Giorgetti

Al posto del titolare del Mef e di Fontana, il Capitano piazza Stefani (avatar del presidente della Camera) e Durigon, quello che voleva intitolare un parco al fratello del Duce. La prima volta di un numero due non del Nord. Saltate le regole, ora tocca ai nervi

Il più incazzato è il mite Giancarlo Giorgetti. E già questo dà l’idea dell’accoglienza che ha ricevuto la nomina, motu proprio, di Matteo Salvini dei due nuovi vicesegretari Alberto Stefani e Claudio Durigon, in sostituzione dello stesso ministro del Mef e del presidente della Camera Lorenzo Fontana. Due sostituzioni previste e, in qualche modo annunciate, che tuttavia non mancano di agitare ancor più le già non tranquille acque in cui naviga, prua sempre più a dritta e vele schiaffeggiate dai venti del Nord, il Capitano. 

Se perfino il don Abbondio di Cazzago Brabbia non riesce a nascondere di avercela su col segretario, figurarsi i “rosari” in dialetto di Luca Zaia, altro che Maurizio Crozza. Più che un Carroccio la Lega sembra un pullman che partito per l’Oktoberfest devia per la sagra delle cime di rapa, con acquisto di pentolame obbligatorio. 

Messa da parte la questione di genere, giacché mai una donna ha avuto il ruolo di numero due, restano sul tavolo senza brindisi quella politica, quella geografica e pure quella delle regole. Proprio da quest’ultima partono le, come sempre, mormorate critiche alla scelta, per poi arrivare al resto non meno importante. Raccontano che Giorgetti abbia sollevato i sopraccigli, più di quanto non farebbe davanti ai numeri della manovra finanziaria, ricordando l’assunto, stabilito e mai prima violato, in base al quale chi ricopre cariche istituzionali importanti o altri ruoli di vertice nel partito non può sommarvi quella di vicesegretario. Pronto, insomma, a passare la mano essendo ministro, ma perché quella regola adesso non vale per Durigon, sottosegretario al Lavoro, e neppure per Stefani, segretario del partito per il Veneto? E poi in fondo non è ministro lo stesso Salvini che resta saldamente (più o meno) al vertice?

Il ragionamento del ministro è quello che fanno in molti in queste ore e pure in quelle in cui, pur precedendo la nomina, già si conosceva l’intenzione di Salvini. Pare addirittura che qualche timido segno di perplessità abbia lambito il più stretto cerchio del Capitano, compreso il suo avatar per le sortite a gamba tesa e ragionamento ingarbugliato, Andrea Crippa, il quale adesso si trova al fianco, o ai fianchi i due nuovi numeri due. 

Uno è, come lui, una sorta di alter ego (anche se non è questa troppo altisonante definizione, quella che circola) del capo. Tant’è che chi conosce i meccanismi del partito riduce il passaggio di consegne tra Fontana e il suo pupillo, come una mera formalità non cambiando la sostanza. Certo anche se solo di un riconoscimento si trattasse, c’è chi lo vede come quello assegnato a chi ha portato a Salvini la segreteria del Veneto, spaccando mezza regione, anche se poi – come spiega chi sa come vanno le cose da quelle parti – alla fine chi comanda resta sempre Zaia. Lui, il Doge, tanto per far capire di che cosa si parla o si cerca di non parlare da qualche parte della Lega, ancora l’altro giorno ha ricordato che “prima o poi il limite dei mandati per i governatori sarà eliminato”. Citofonare Salvini. 

E se a questo giro la Lombardia uno dei due vice, restando Crippa, non è tanto questione di campanili tra regioni, quanto piuttosto a rendere malmostosa una buona fetta dei maggiorenti è il crollo del muro, quello che fino ad oggi non aveva mai visto un politico del Sud alla vicesegreteria del partito cui Salvini s’affrettò a togliere il Nord dal simbolo. I primi due vice, quando divenne segretario furono il ligure Edoardo Rixi e il piemontese Riccardo Molinari, poi sostituiti quando (come Stefani) presero in mano le redini della Lega nelle rispettive regioni. Dopo di loro toccò a Crippa, Fontana e Giorgetti, sempre ben al di sopra della linea gotica. 

Nonostante le origini venete, tradite dal cognome, Durigon è nato a Latina, città dove cresce come sindacalista dell’Ugl e dove proverà, inciampando in una polemica di vasta eco, a proporre il cambio di intitolazione del parco pubblico da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ad Arnaldo Mussolini, fratello minore del duce. Pochi giorni dopo quella sortita, nell’agosto del 2021 rassegnò le dimissioni da sottosegretario, per tornare a quel ruolo dopo le elezioni che porteranno Giorgia Meloni a Palazzo Chigi. E’ il volto, ben pasciuto, della Lega al Sud, sia pure la residenza dica centro. Con lui al suo fianco, Salvini marca ancora una volta l’impronta nazionale e, con Roberto Vannacci, nazionalista della Lega che lui intende e guida. Una bandierina sul fianco destro politico e meridionale geografico. Giorgetti, scuro in volto, dovrà farsene una ragione e come lui non pochi altri a cui, sotto il peso del corpulento Durigon, è toccato vedere crollare pure il muro della Lega. E dover scacciare il pensiero di un carroccio che diventa una Trabant.

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