Democrazia, decesso annunciato

L’Alta velocità pare decisa a non lasciare il ruolo di protagonista della politica italiana. Dagli oramai lontani anni ’90 il treno veloce anima dibattiti, confronti accesi, litigi tra partiti e tra i militanti all’interno degli stessi, diventando causa di epurazioni eclatanti e ostracismi.

Le alleanze politiche nascono, e sovente muoiono, nel nome della Torino-Lione (o meglio della Milano-Lione). L’opera condiziona fortemente le campagne elettorali, dividendo i candidati in “Buoni” (i Sì Tav) e “Cattivi” (i No Tav), e favorendo così clamorosi cambiamenti di rotta da parte di quei politici impegnati esclusivamente a blindare la propria poltrona.

Il Movimento No Tav nel 2010 ha fatto la scelta di entrare in Parlamento affidandosi (anima e corpo) a Beppe Grillo, già acclamato da decine di migliaia di persone al Parco della Pellerina di Torino al termine di una lunga marcia di protesta, partita qualche ora prima dalla bassa Valle Susa.

Lo schierarsi di molti leader del dissenso anti-Alta velocità a fianco dei 5 Stelle è stato il frutto di una valutazione negativa nei confronti dell’azione di contrasto politico affidato precedentemente alla Sinistra radicale, nonché della convinzione che una vittoria del Movimento alle politiche avrebbe comportato l’archiviazione tombale del travagliato progetto ferroviario.

Dopo un lungo “tira e molla” è invece arrivata un’inattesa doccia fredda, anzi ghiacciata, sulla schiena dei contestatori: un grande tradimento che prescinde addirittura dalla corposa analisi di costi e benefici curata dal alcuni ingegneri indipendenti, arruolati dal Ministro dei Trasporti Toninelli. Fatti i conti, Conte (licenza poetica dell’autore) è giunto infatti a una conclusione incontrovertibile: fermare il cantiere di Chiomonte comporterebbe per il Pubblico costi insostenibili, per cui non vi sono alternative a quella di andare avanti con i lavori delle discenderie del tunnel di base.

Il voto decretato dalle recenti elezioni regionali è equiparabile, secondo alcuni, a una sorta di referendum sul Tav che rafforza le ultime decisioni di Palazzo Chigi: una consultazione vinta quindi ovunque dai partiti pro Alta velocità, tranne che nel comune di Venaus. Cosa è accaduto realmente in Valle, perché il risultato emerso dalle urne ha dato un esito avverso alle posizioni di chi da decenni contrasta l’opera. Infine, come mai il Movimento pentastellato ha abbandonato le sue posizioni radicali in merito alla linea ferroviaria di confine.

Vale la pena iniziare a riflettere proprio dai dati elettorali, partendo però da un elemento ignorato solitamente dalla politica come dalla sociologia, ossia quello del non voto (il fenomeno dell’astensionismo). La percentuale degli iscritti alle liste elettorali che rifiutano di recarsi alle urne aumenta di anno in anno a causa del disincanto totale nei confronti della politica istituzionale.

I volta faccia, i cambi di rotta repentini da parte degli eletti, sono stati determinanti nella creazione di una ricca schiera di refrattari alle Istituzioni democratiche, compagine formata in gran parte da elettori stanchi provenienti dalle file della Sinistra prima, e del Movimento poi. Il dato elettorale quindi non può essere considerato al pari di un referendum sul Tav proprio a causa della sua intrinseca parzialità e incompletezza.

Invece di disegnare ovunque quadri ritraenti una popolazione montana improvvisamente mutata in fautrice dell’Alta velocità, sarebbe stato opportuno che il governo avesse dato una risposta allo studio costi/benefici della tratta di collegamento con Lione e, soprattutto, non fosse stato tanto determinato (da sempre) a ignorare i tanti quesiti sollevati dalla Valle (e non solo) in questi 30 anni (!) di lotta.

Trent’anni, non trenta mesi, di contrapposizione all’ipotesi progettuale (a un tracciato frutto di una linea disegnata quasi a caso su una mappa della Valle Susa), le cui uniche risposte provenienti dalle autorità sono state da una parte la militarizzazione dell’intera regione e dall’altra il lancio di slogan infantili a difesa del progetto.

Lascia una profonda ferita, e una grande inquietudine, osservare come le Istituzioni si straccino letteralmente le vesti per un treno. Solo un autore di romanzi del genere fantapolitica, sul modello del film Blade Runner, avrebbe potuto immaginare l’esistenza di uno scenario simile a quello costruito intorno alla grande opera ferroviaria.

Lupi Grigi, sottoufficiali dell’Arma coinvolti in traffici d’armi e azioni di sabotaggio sul territorio (atti dalla regia occulta), attentati e false piste, suicidi sospetti, sono solo una piccola parte dell’intrigata vicenda su cui ora cala il volere del Ministro Salvini (la cui crociata Sì Tav è favorita dal tentennamento del vice premier Di Maio, forse a tutela della poltrona su cui siede).

Il potere misterioso di attrazione esercitato dalle grandi opere (o meglio le grandi devastazioni ambientali, i grandi sprechi di denaro) su esecutivi e partiti ha fattezze impressionanti. Un fascino che si nutre di dissidenti, critici e popolazioni intere.

La vicenda Tav dimostra ancora una volta come la Costituzione possa mutare da Carta fondamentale dei diritti e dei doveri a una lapide in memoria di valori uccisi nel nome del business e del capitale finanziario. La trasformazione avviene grazie al lento lavoro delle Istituzioni, le quali sviliscono giorno dopo giorno i principi costituzionali, negando costantemente il riconoscimento dei diritti alle genti e dimenticando consciamente i valori assoluti del lavoro e della dignità.

Ignorare regolarmente gli ultimi, siano questi migranti o difensori di intere comunità e ambiente, concedere il diritto di parola esclusivamente ai razzisti e al contempo ignorare le popolazioni su cui si abbattono le grandi infrastrutture (magari dopo che i promotori hanno fatto l’elogio alla giovane Greta) sono i sintomi più evidenti di un decesso annunciato: la morte della Democrazia parlamentare.

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