Sinistra allo specchio

“Forse domani ci sono per la riunione, ma non ne sono certo. Ci aggiorniamo”. Questa frase raffigura perfettamente la sintesi dello stato d’animo che attanaglia gli attuali eredi di Gramsci. La sfiducia e la rassegnazione hanno avuto la meglio sulle speranze, un tempo rivolte verso la costruzione di un “Mondo migliore”.

La politica per costoro, giorno dopo giorno, ha smesso di essere una priorità, trasformandosi in un elemento utile a colmare i momenti vuoti della quotidianità. Vivere per la collettività, per la realizzazione di un progetto sociale, non è più concepibile innanzi all’individualismo dominante: telelavoro e isolamento sono i killer di qualsiasi coesione comunitaria e solidale (comunità relegate nell’angolo buio dalla routine giornaliera).

I reality e i talent show generati dai format televisivi diffondono una cultura, o meglio una sottocultura, assai bizzarra e del tutto incentrata sul singolo che si fa strada travolgendo chiunque lo ostacoli. Il concorrente, in quelle gare, emerge solo a scapito del gruppo; vince a patto di lottare contro chi condivide il suo medesimo percorso, e distribuendo sorrisi arrendevoli a coloro che detengono il potere di gridare sdegnati “Sei fuori!!”. Giudici spietati a cui baciare la mano in segno di resa.

Entrare in politica oggi significa essere ammessi a una crudele gara a eliminazione con tanto di diretta Tv. Un’eventuale vittoria si traduce in gettoni di presenza e ghiotte indennità, utilissime se diventano l’unica fonte di reddito in capo a candidati privi di occupazione e quindi di salario.

Il triste modello offerto dalle competizioni televisive ha pervaso anche la sensibilità dei militanti di Sinistra, i quali nei rari attimi in cui accedono alle leve del potere cadono nella trappola dei selfie, nonché in quella di proposte regolarmente percepite “inutili” dai cittadini che li hanno votati.

Dopo aver retto una Circoscrizione nel lontano quinquennio 2001-2006, attualmente mi ritrovo a sedere sugli stessi banchi di allora ma tra le fila della minoranza. Il quartiere in oggetto è governato dal centrosinistra, con una marcata egemonia del Pd e dei Moderati (realtà partitica tipicamente piemontese). Lo scenario gestionale della res publica è deprimente poiché mostra i limiti di una classe politica entrata nel tunnel del declino irreversibile.

Malgrado la minaccia salviniana, la cui ombra si allunga sulle prossime comunali del 2021, la giunta circoscrizionale in questione continua dritta per la sua strada sconnessa: percorso fatto di contributi a pioggia, dalla sterile ricaduta territoriale, di sostegni generosi alle parrocchie e di finanziamenti rivolti a progetti redatti (non sempre nel migliore dei modi) da associazioni private. La costante rinuncia da parte del quartiere a riappropriarsi della regia pubblica è a dir poco sconcertante: ogni azione amministrativa viene percepita quale delega in bianco rilasciata generosamente a imprese sociali e culturali.

È facile rilevare come i componenti di quel governo locale si caratterizzino per l’assenza di progettualità, per una mancata visione della città del futuro. Scomparso l’ideale, introvabili i pensieri che esulino dal vivere il momento immediato. I cittadini (pochi) presenti alle commissioni di lavoro faticano a comprendere l’identità politica degli assessori di quartiere, hanno difficoltà a dare loro un’etichetta (sia essa di Destra che di Sinistra): amministratori pubblici buoni per ogni stagione.

L’adattabilità estrema all’esistente diventa così l’unica stella polare capace di dare un orientamento a questi strani marinai d’acqua dolce, non adatti al timone e tantomeno alle tempeste provocate dal conflitto di idee apparentemente inconciliabili tra loro. Donne e uomini bravi soprattutto a mettere mano al portafoglio pubblico per erogare contributi, in gran parte utili esclusivamente per una loro agognata rielezione.

Di fronte a tutto questo, un simpatizzante progressista non può che cedere alla rassegnazione del “Sono tutti uguali i politici. Non voto più”.

Nel frattempo che qualcosa si diriga verso “Il Sol dell’avvenir”, R. M. (iniziali di fantasia) ha perso il suo ennesimo lavoro regolato da un contratto precario. Contemporaneamente, il suo amico a quattro zampe viene investito da un Suv guidato dal caratteristico arrogante pirata della strada, obbligandola a una scelta: sopprimere il coinquilino con la coda oppure spendere 4 mila euro per rimetterlo in piedi.

R. M., chiedendo aiuto ad amici e conoscenti, ha optato per il veterinario, conscia che se non salderà prontamente la sua parcella non rivedrà mai più il suo amato cane. Una volta trovati i soldi per lei sarà difficile provvedere ad affitto e spesa, ma la vita di quell’essere conta molto per lei (giustamente).

La donna è sola, consapevole di essere stata abbandonata dalle istituzioni civili e religiose, mentre ascolta al telegiornale parole di sostegno e pietà indirizzate a chi è appena sbarcato a Lampedusa poiché in fuga da guerre e disastri climatici. R. M. a questo punto può fare due cose: cadere nella trappola della guerra tra poveri e aderire all’odio strumentale salviniano, oppure sperare che le piazze si riempiano di concittadini desiderosi di giustizia sociale.

La Sinistra perde i quartieri e si allontana dalle persone, diventando in tal modo il miglior complice del successo del populismo. Disinteresse per le classi più deboli e assenza di progettualità sociale da parte degli amministratori progressisti, concentrati solamente su se stessi, sono elementi che possono spingere R. M. e tante persone come lei alla deriva del qualunquismo.

Uscire dalla sconfitta perenne è possibile, ma a patto di mettere in discussione prima di tutto noi stessi: quella Sinistra distratta poiché troppo impegnata a guardarsi allo specchio per autoincensarsi o per piangersi addosso.  

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