Ritorna la "questione sociale"

La cosiddetta “questione sociale” è ritornata. E forse in modo più virulento e grave del passato. Complice la pandemia, certamente. Ma è indubbio che il contesto sociale complessivo si è pericolosamente aggravato. E lo confermano tutti i dati, non quelli manipolati, come ovvio, ma quelli veri. Dalla crescente disoccupazione giovanile, e non, all’impennarsi dell’impoverimento anche e soprattutto delle famiglie del ceto medio; dalla crisi del settore autonomo alla chiusura di migliaia di aziende; dalla difficoltà di trovare lavoro per una fascia generazionale che non può ancora andare in pensione e si trova fuori dal mercato della possibile occupazione alle crescenti disuguaglianze sociali e generazionali. Elementi che portano ad una sola conclusione: e cioè, il riproporsi di una persistente e acuta “questione sociale”. E proprio la recente festa del 1 maggio – se di festa si può ancora parlare... – ci deve spronare anche a non continuare ad aggirare l’ostacolo. Certo, non lo può più fare il Governo, non lo può fare la politica e, men che meno, quei partiti e quelle culture politiche che storicamente affondano le loro radici ideali direttamente nell’umanesimo cristiano e nel popolarismo di ispirazione cristiana.

Al riguardo, voglio sommessamente ricordare - anche se sono cambiate profondamente le stagioni politiche e, purtroppo, anche i leader politici che hanno segnato il cammino e la storia della nostra democrazia - che proprio uomini come Donat-Cattin e Marini hanno sempre posto la “questione sociale” al centro della loro agenda politica e di governo. Ed erano già tempi, certamente difficili e complessi, ma dove l’emergenza sociale non era grave come quella che stiamo vivendo dopo questa terribile e persistente pandemia. Una “questione sociale” che è stata centrale, ad esempio, in tutto il magistero politico e di governo di Donat-Cattin e che culminò con l’approvazione dello Statuto dei Lavoratori ma che accompagnò tutta la sua attività parlamentare.

E proprio la cosiddetta “corrente sociale”, o sindacale, della Democrazia Cristiana ha fatto da sfondo per questa sottolineatura e richiamo nel dibattito politico e parlamentare per moltissimi anni. E così è stato per un altro leader della sinistra sociale, Franco Marini. E, non a caso, aver ricoperto, entrambi, il ruolo di Ministro del Lavoro è stato il riconoscimento politico di quella precisa sensibilità del partito di riferimento, la Dc, ma anche e soprattutto la consapevolezza che se si voleva declinare una politica popolare a difesa dei ceti popolari ed essere, al contempo, attenti alle richieste che provenivano dal mondo del lavoro, non si poteva fare a meno della competenza, della cultura e della esperienza maturata da esponenti che provenivano direttamente da quelle realtà. E proprio su questo versante, l’esperienza di Marini e di Donat-Cattin è stata quanto mai significativa e pertinente.

In effetti, la preoccupazione costante di Donat-Cattin e di Marini di porre la “questione sociale” al centro di ogni indirizzo politico non si risolveva solo nello sforzo di condizionare le scelte di politica economica e salariale ponendosi dal punto di vista dei ceti subalterni. Entrambi volevano che nell’architettura amministrativa dello Stato democratico quei ceti e quelle istanze non avessero un ruolo residuale nè meramente aggiuntivo. Il dato nuovo dell’azione di Donat-Cattin prima e di Marini poi, in sintesi, doveva consistere “nel dare alla politica sociale complessiva – per usare le parole dello statista piemontese - un ruolo non più subalterno, ma primario per la vita dello Stato, anche nella sua espressione politico/amministrativa”.

Insomma, questa precisa concezione riguardante la centralità della “questione sociale” era semplicemente riconducibile al fatto che l’istanza sociale “doveva farsi Stato”. Trovare, cioè, piena ed irreversibile cittadinanza ad ogni livello dell’organizzazione amministrativa e della gestione della cosa pubblica. Ed è proprio per questo motivo che, oggi, la “questione sociale” deve ridiventare centrale nell’agenda politica italiana. Pena prendere atto in modo burocratico e notarile che settori crescenti della pubblica opinione italiana, cioè milioni di persone di tutte le generazioni, dovranno rassegnarsi ad avere un ruolo marginale e periferico nella geografia sociale, politica ed economica del nostro paese. Un lusso che, come ovvio, non è più né tollerabile né, soprattutto, accettabile.

print_icon