Il dilemma Europa

Nel conflitto virtuale e di piazza tra Sì e No Vax, che sta accompagnando l’osservazione dinamica - sia oggettiva che subordinata alle distinte partigianerie - del fenomeno pandemico, sembra essersi defilato dal sentire comune quel tema di cruciale centralità, politica prima ancora che tecnica, rappresentato dai flussi poderosi di risorse del Next Generation Eu verso gli Stati dell’Unione, sottoposti preventivamente a controlli di affidabilità.

Il che, in prima battuta, sarebbe ineccepibile, se un certo potere discrezionale esercitato dai commissari e funzionari non destasse più di una perplessità sulle loro vincolanti analisi valutative dei singoli Stati membri in merito ai sistemi giudiziari, agli applicativi dell’anticorruzione, al pluralismo e alla libertà dei media e al bilanciamento dei poteri. Su questi argomenti è tornato nei giorni scorsi, in una trasmissione “monografica” ai microfoni di Radio Parlamentare, Alessandro Giglio Vigna, deputato della Lega, nonché capogruppo nella Commissione Politiche dell’Unione europea della Camera. Rispondendo a domande sullo Stato di diritto come terreno di sfide e criticità per l’Ue, il parlamentare ha messo in rilievo le possibili ricadute e le preoccupanti distorsioni che una tale procedura di controlli potrebbe causare al normale funzionamento delle democrazie nazionali, per quanto attiene soprattutto alle dinamiche elettorali interne. In altre parole, agitare lo spauracchio della sanzione a carico di qualche Paese, vale a dire il non versamento degli aiuti finanziari da Bruxelles o anche soltanto renderne condizionale o sospensiva l’erogazione, potrebbe provocare alterazioni alla capacità concorrenziale dei partiti (legittimamente) euroscettici, nel momento in cui si presentano all’elettorato per attrarne il consenso. Non è questo nello specifico il caso dell’Italia: sullo sfondo del ragionamento vi sono - sebbene non dichiaratamente citate nella “Relazione sullo Stato di diritto 2021” della Commissione europea - la Polonia e l’Ungheria, dove l’indipendenza della magistratura e la libertà di informazione non godono innegabilmente degli standard conseguiti nella fascia occidentale dell’Unione.

Tuttavia, che una tale prassi ispettiva possa dilatarsi senza incontrare resistenze interpretative alle sua applicazione, giustifica, secondo il deputato leghista, alcuni interrogativi solo all’apparenza provocatori. Con le attuali regole dell’Ue, ad esempio, sarebbe possibile oggi quel fenomeno epocale che è stato la riunificazione della Germania? E se l’Unione fosse uno Stato terzo, avrebbe i requisiti minimi di democrazia interna e di rapporto tra istituzioni e cittadini per poter entrare nel consesso dell’Unione medesima? Da questa angolazione, se chi giudica è lontano da quella che è la vita dei Paesi a sé stanti, “freddo” alle loro storie e culture plurisecolari e impancato con rigido formalismo su “pignoleschi regolamenti”, per dirla con Giuseppe De Rita, non è immaginabile affrontare il nodo della questione, se non attraverso un calibrato giudizio su come i valori fondamentali, a suo tempo negoziati e stabiliti, vengano declinati nelle rispettive realtà nazionali. Intanto la radice del problema è piantata nella movimentazione geopolitica continentale post ’89: l’evoluzione dalla Comunità economica all’Europa dei popoli è stata fratturata da ambizioni egemoniche, neanche troppo velatamente nazionalistiche, avanzate in primis dalla Germania, con il macroscopico abbandono dell’idea di Helmut Kohl di una Germania europea a favore di quella di un’Europa tedesca, coltivata con decisionismo da Angela Merkel (non a caso soprannominata dalle sue stesse parti “Frau Merkiavelli”). Perseguire queste aspirazioni, mentre la globalizzazione prendeva sempre più corpo, rendendo di fatto il nostro continente un “quartiere del pianeta”, è stato un errore multiplo. Senza un baricentro autenticamente “sentito” dagli Stati membri, in via di accrescimento numerico, si è smarrito il senso della marcia e ci si è ritrovati spaccati su controversie tra sistemi istituzionali ed economici nazionali, perdendo di vista la necessità per l’Unione di dotarsi, ad esempio, di una vera politica estera comune. Di questo passo, a disequilibrio interno e in assenza di chiari orizzonti ideali, ha prevalso un certo spirito di gendarmeria burocratica, che fa assegnare a Bruxelles la titolarità di promozioni e bocciature e quasi classificare in buoni e cattivi gli Stati membri. Indubbiamente c’è un Trattato istitutivo dell’Unione e va rispettato, così come sono stati assolti gli obblighi derivanti dalle pattuizioni precedenti, nel solco di una storia comunitaria che è stata ad ogni buon conto una concertazione diplomatica tra identità secolarmente incompatibili. Un aspetto, questo, che occorre non dimenticare mai, e cioè che lo sforzo di generare un’associazione su principi comunitari concorrenti non può prescindere dalle forze in campo delle opinioni pubbliche “locali”, nei cui confronti gli stessi trattati si rivelano deboli come “dighe immaginarie”. È in questo contesto che potrebbe trovare spazio e tempo una riflessione ponderata sullo Stato di diritto non solo nei singoli Paesi, ma anche nella stessa dimensione istituzionale e operativa dell’Unione. Innanzitutto perché l’esportazione della democrazia e quindi dello Stato di diritto - pur nel vortice frenetico e controverso del colonialismo - è stata la principale linea di mercantilismo culturale con cui l’Europa ha fabbricato il mondo, il dispositivo che fa sì che ancora oggi l’Europa non stia solo in Europa e che il mondo continui ad essere il suo spazio di diffusione e di proiezione. Ragione per cui, se la struttura portante dello Stato liberale è la distinzione dei poteri - e il freno alla loro tendenziale reciproca prevaricazione - a maggior ragione questo impianto deve imporsi nell’organizzazione centrale della “nazione europea” in rapporto agli Stati che la compongono. Contrariamente a certe previsioni messianiche di fronte alle macerie del muro di Berlino, non siamo entrati nella cosiddetta “costellazione post-nazionale” e a misura d’uomo è probabile che non ci entreremo mai. Se questo sia un bene o un male è difficile dire, per quanto la suggestione utopica degli Stati Uniti d’Europa rappresenti una prospettiva per certi versi irrinunciabile, tanto quanto una visione di concretezza nel condurre le politiche ordinarie. Per usare una metafora del geografo Jacques Lévy, gli Stati stanno all’Unione come lo zucchero sta al caffè e indubbiamente “nel momento in cui lo zucchero si scioglie nel caffè, il caffè cambia gusto, ma intanto lo zucchero è scomparso”.

Non c’è Stato che potrebbe accettare al momento una simile ineluttabile soluzione. L’adattamento graduale tra differenti identità e apparati istituzionali rimane la via più ragionevole da percorrere, avendo chiaro che lo Stato di diritto è di per sé un terreno scivoloso, da affrontare con dosi elevate di cautela. Molti anni fa un grande costituzionalista tedesco formulò a questo proposito un dilemma divenuto celebre, basato sull’assunto che lo Stato liberale si posiziona sui suoi presupposti come un funambolo sulla corda: per esistere deve lasciare piena libertà ai singoli, confidando nella moralità individuale e nell’omogeneità della società; così facendo, però, mette in moto una spirale di rivendicazioni individualistiche (gruppi organizzati compresi) che rischia di disgregare l’ordinamento sociale e giuridico ed è costretto perciò ad imporre la sua autorità in termini di coercizione e di comando, il che significa rinunciare a quella liberalità che ne è la pietra angolare. Forse pensare ogni tanto a questo inghippo, risulterebbe utile a chi, per vocazione, per mestiere o per tutt’e due insieme, si muove sui sentieri d’Europa.

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