L'azienda è tua e la gestisco io

Summum ius, summa iniuria, dicevano i latini, e avevano ragione da vendere: la sensazione è che la sentenza del Tribunale di Roma, pubblicata ieri, che ha condannato la Fiat ad assumere 145 lavoratori Fiom nello stabilimento di Pomigliano, si fondi su solide basi giuridiche, ma ciononostante sia il massimo dell'ingiustizia.

 

Nell'ambito di una ristrutturazione aziendale, la Fiat, tramite la società Fabbrica Italia Pomigliano, aveva riassunto parte dei lavoratori in precedenza addetti allo stabilimento: tra questi, però, non figurava nessun iscritto alla Fiom, il sindacato che si era tanto opposto fermamente ai nuovi accordi aziendali sulla gestione della fabbrica.

 

Un caso? Evidentemente no. Coprendoci di ridicolo, siamo dovuti andare a scomodare (e pagare) un professore inglese perché ci dicesse quel che appariva ovvio a chiunque, ovvero che con ogni probabilità la Fiat aveva scelto di proposito di non impiegare lavoratori iscritti alla Fiom (il professore ha calcolato effettivamente questa probabilità!).

 

Ma il problema è che questo in Italia non si può fare: esistono in effetti norme, in questo caso di derivazione europea, ma con un forte sostegno anche nella nostra Costituzione, che vietano al datore di lavoro di discriminare un lavoratore o un candidato sulla base delle sue opinioni sindacali. Il comportamento tenuto da Fiat era quindi con ogni probabilità effettivamente vietato, ed ecco perché la sentenza in questione pare sinonimo di summum ius. Tuttavia, a noi pare anche che si tratti di summa iniuria.

 

Come mille altre regole che compongono il nostro diritto del lavoro, il divieto di discriminazione è figlio di un'ideologia (che permea di sé tutta la parte economica della nostra Costituzione) che rende l'attività economica e la proprietà funzionali all'utilità sociale. In altre parole, quando compiamo una determinata attività, non siamo realmente liberi di farla, purché non nuociamo ad altri: no, dobbiamo anche far attenzione a che quell'attività, anche se non danneggia nessuno, stia bene ai burocrati di turno. In fin dei conti, infatti, l'"utilità sociale" coincide con quello che stabiliscono loro.

 

I burocrati infatti pretendono di sapere cosa sia giusto e sbagliato in assoluto, e cosa sia bene o male per una data azienda: pretendono di sapere chi e quando e come sia giusto assumere e (non) licenziare. Pretendono di saper trovare la formula magica per contemperare l'utilità individuale e generale (forse lo imparano a scuola, a giudicare dal tema di maturità su "bene individuale e bene comune", nella cui traccia citano sì il nostro Einaudi - evviva! - ma son riusciti a prendere un'opera e un passo dei meno "liberisti", così lasciando praticamente sguarnito il fronte dei difensori del "bene individuale": eppure di passi anti-pianificazione e anti-benicomuni, anche dello stesso Einaudi, ce ne sarebbero stati, a volerli cercare!).

 

In ogni caso, ai burocrati di turno non sta bene che il datore di lavoro possa assumere chi gli pare. Ora, siamo ormai assuefatti a vedere la libertà oltraggiata ogni giorno e forse non ci facciamo neanche più caso, ma ci rendiamo conto di che cosa significa questo? Significa che se io prendo i risparmi di una vita, metto su un'azienda, e me ne assumo i rischi, non sono libero di decidere chi voglio che venga a lavorare per me, perché sarà un burocrate (o un giudice, applicando le direttive del burocrate) a deciderlo per me.

 

Nel caso di Fiat - diciamocelo - vien quasi da dire che ci può stare: con la montagna di soldi che il contribuente italiano ha versato nelle sue casse, dire che la Fiat si sia assunta il rischio d'impresa è quasi una barzelletta, per cui l'intromissione del burocrate è un pochino meno odiosa. Ma di per sé il principio applicato dalla sentenza è detestabile.

 

Non è solo una questione di libertà, oltre che di realismo (si vuol forse imporre di assumere i 145 in aggiunta ai lavoratori già assunti, in barba a ogni business plan? o altri 145 dovrebbero fare loro generosamente posto, tanto è facile trovare un altro lavoro? non è dato sapere). Quel che fa inorridire è anche la mentalità alla base di chi, difendendo simili divieti, crede di farsi paladino dei lavoratori, ma in realtà non si accorge che proprio lui li sta trattando come merce, come numeri, come materiale intercambiabile, per cui uno vale l'altro, mentre i lavoratori sono ovviamente individui uno diverso dall'altro, ed è quindi sacrosanto che il datore di lavoro possa "scegliere" l'uno piuttosto che l'altro come proprio collaboratore.

 

In fondo, "discriminare" significa proprio questo. Ce lo ricorda la professoressa Paola Mastrocola, in una pagina stupenda di La scuola raccontata al mio cane, in cui si ribella all'idea neo-sessantottina per cui i voti scolastici sarebbero appunto "discriminatori": «Mi hanno anche detto che era umiliante per i ragazzi e le loro famiglie vedere i voti resi pubblici, era un gesto molto... discriminante! Già, discriminare è un verbo che piace poco. Nulla deve mai essere discriminante. E pensare che, di per sé, discriminare è un verbo così innocuo. Viene da discrimen, che vuol dire divisione, linea di separazione, intervallo, distanza. E quindi significa soltanto dividere, separare, distinguere. Che problema c'è? Vuol dire che io non metto tutto insieme nello stesso luogo, ma scelgo. Abbiamo idea di quante discriminazioni al giorno compiamo?».

 

E voi, cari burocrati, avete idea di quante volte al giorno discriminate chi ha voglia di fare? Poi non stupitevi se, come Marchionne o come il valoroso gruppo guidato da Andrea Zucchi, un bel giorno questi se ne vanno. E se a quel punto non c'è più nessuno da tosare per pagarvi gli stipendi.

 

Cose inaudite.

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