Eziologia del bando al fumo
Lino Sacchi* 08:49 Lunedì 29 Aprile 2024
Dunque, il Comune di Torino ha dichiarato guerra al fumo (del tabacco) accodandosi così ad altre città italiane. E non solo italiane: in Inghilterra, ad esempio, un divieto analogo è stato disposto addirittura a livello nazionale ed è diventato un caso politico, spaccando sia la maggioranza, sia l’opposizione. Il provvedimento torinese mi ha innescato alcune riflessioni, cominciando da quella essenziale, che consiste in una domanda: perché il divieto?
Prima di tentare una risposta, è necessario ricordare le linee principali del provvedimento. Vieta di fumare all’aperto se c’è altra persona a distanza inferiore a cinque metri, salvo che la persona presti esplicito consenso. Fin qui è chiaro, ma non è tutto qui. Il divieto, infatti, diventa assoluto in presenza di donna incinta. Presumo questo significhi che la donna incinta non ha il diritto di dare consenso. Invece magari significa che il divieto vale se la gestante è in vista anche da lontano! Chiaro che il provvedimento necessita di una regolamentazione molto dettagliata. Prendiamo il caso del tizio che fuma seduto sulla panchina. Arriva la signora: ha diritto di sloggiarlo? Oppure ha ragione chi è arrivato per primo? Non parliamo poi del caso della donna incinta: possibili controversie del tipo “signora, è proprio sicura? Quanti giorni di ritardo? E se fosse la menopausa?
Le possibili risposte alla domanda posta in apertura sono in realtà molteplici. La prima e più ovvia: il bando vuole tutelare la salute. Ma la salute di chi? Non quella del fumatore, dato che, con questa finalità, il divieto sarebbe incompleto per almeno due aspetti. Anzitutto, vale solo all’aperto. In secondo luogo, prendiamo il caso di quel tipo che se ne sta su una panchina al parco. Gli proibiamo di fumare la sigaretta, e però può farsi tranquillamente la sniffata senza essere perseguibile (uso personale, modica quantità), e presumo che ciò valga anche per il micidiale fentanyl ed altre droghe sintetiche.
È chiaro, dunque, che la preoccupazione è per la persona adiacente. Con tutto il rispetto per il parere di alcuni esperti, mi riesce faticoso pensare che la salute del fumatore passivo sia messa a rischio – all’aperto! – se considero la enorme differenza di concentrazione del fumo nell’aria che respira, rispetto a quella inspirata dal fumatore attivo a ogni boccata (o “tiro”: ripenso ai ragazzini di una volta, nel gabinetto della scuola, “dai, fammi fare un tiro”). Comunque, gli esperti hanno deciso che questa mia argomentazione non è rilevante. Passi.
La debolezza della motivazione salutistica mi ispira una risposta alternativa alla domanda posta in apertura. Il divieto rientra nel campo della protezione dei diritti, nella fattispecie, del diritto di non essere infastidito dal fumatore.
E tuttavia, quando si entra nel campo dei diritti, il terreno diventa scivoloso.
I diritti sono illimitati solo in ambito lgbt. Dove l’unico tabù sopravvissuto (fino a quando?) è quello dell’incesto. Sopravvive da noi anche il diritto del rapporto sessuale con animali, che non è scontato: è infatti soggetto a limiti in taluni paesi. È il caso dell’Iran, dove, ad esempio, il diritto di fare sesso con una gallina è stato regolamentato accuratamente dall’ex “guida suprema” Khomeini in persona, come illustrato da Azar Nafisi nel suo ottimo “Leggere Lolita a Teheran” (Adelphi, 2004). In particolare, non possono mangiare quella gallina né l’“amante”, né i suoi famigliari. Non è menzionata la necessità di “consenso” da parte della gallina.
Terreno scivoloso, si diceva, in quanto capita spesso che due diritti siano tra loro incompatibili. Un esempio recente: in UK è stato licenziato un insegnante che indirizzava, usando pronomi femminili, una ragazza che li pretendeva maschili. È stato tutelato il diritto della ragazza a non essere infastidita da pronomi maschili a lei sgraditi. E però, non è stato tutelato il diritto dell’insegnante di non essere infastidito dall’obbligo un po’ demenziale di indirizzare una donna come se fosse un uomo.
Si pone qui un problema importante. La nostra società, apparentemente libertaria, va assumendo, ad avviso di chi scrive caratteri sempre più autoritari. Esiste un pensiero mainstream, contrastare il quale comporta l’esclusione dal novero del consorzio civile, e la chiusura nel ghetto degli impresentabili; magari anche il licenziamento, come nel caso appena citato. Nel contempo, taluni diritti, stravolti, diventano doveri. Si riscontra spesso nel campo della salute. Ad esempio: gli esperti dicono che il sale fa male? Se ne sono convinto, in un paese libero comprerò pane povero di sale. Semplice no? Eh no! Non è così a Parigi, dove una nuova normativa stabilisce che nessun pane può contenere più di 1,4 grammi di sale per etto. Piaccia o non piaccia.
Ma torniamo alla domanda iniziale, al “perché?”. Un’ipotesi che ho preso in considerazione è il divieto di radice ambientalistica. Fumare genera una brage, cioè una combustione, che immette Co2 nell’atmosfera. Però, l’ipotesi sembra debole. Quante sigarette ci vogliono per eguagliare la flatulenza di un solo ruminante? E poi, le sigarette non contengono metano. Va considerato il problema dello smaltimento dei mozziconi, di per sé inquinanti. Però, anche questo problema non appare determinante. No, non tiene nemmeno la motivazione ambientalistica. C’è qualcosa di molto più profondo.
Ciò che si vuole imporre - questa la conclusione alla quale sono arrivato - è l’obbligo della virtù. Ciò che si vuole abbattere non è il fumo all’aperto oppure in presenza di donne incinte: è l’abbattimento del fumo in toto come fonte di piacere. Ci troviamo qui alle prese con tematiche sulle quali il pensiero filosofico elucubra da almeno due millenni: natura della virtù, natura della felicità, rapporto tra felicità e piacere. Se Virtù significa perseguire il Bene, mi viene immediato di pensare alla concezione “utilitarista” di Bentham: bene significa produrre la massima felicità per il massimo numero di persone. Un criterio, tuttavia, che ci assisterebbe pochissimo nella valutazione del divieto torinese: come pesare la felicità del tizio che si gode la sigaretta, e confrontarla col benessere del vicino che si libera del fumatore molesto?
Niente da fare. su temi che investono l’Uomo nel suo imo più imo, la varietà delle posizioni filosofiche è sterminata, e non sarei qualificato per esplorarla. Resta vero che, insieme al pensiero sulla Morte, è quello sulla Felicità, a occupare la riflessione dell’Uomo. Insieme, lasciano poco spazio per il resto. Prima di abbandonare il punto, sentiamo due sapienti della Grecia antica (attingo l’esempio ad uno scritto accademico di Massimo Mori). Epicuro: “[…] perciò dichiariamo il piacere principio e fine della felicità”; e Antistene: “Vorrei piuttosto impazzire che provare piacere”. Un punto chiave: tra l’“epicureo” Epicuro e il socratico Antistene, il Cristianesimo chiaramente ha fatto la sua scelta.
E comunque, nella scelta di privilegiare Antistene, la Città di Torino è semplicemente figlia del suo tempo. La cultura dell’ex “Occidente cristiano”, nel pagare tributo all’ideologia woke, si è messa in mano ad una setta che conserva certi tratti di cristianesimo medievale sia gnostico (il suicidio o “endura” dei Catari), sia cattolico (l’auto-flagellazione: ahi, ahi, abbiamo peccato).
*Lino Sacchi, professore emerito di Geologia Università di Torino, Società Libera