Qualcosa di sinistra

In un quadro in cui la discussione politica appare oberata dalla ricerca del consenso, esistono ancora degli intellettuali che provano a riflettere sulle ragioni e sui fini dell’attività politica. Tra questi Salvatore Veca che, col saggio Qualcosa di sinistra, prova ad aprire un varco per riprendere quel dialogo, quella osmosi, tra cultura e politica, tra valori e politica, che sempre più si sono assottigliati col venir meno del sostegno di quelle “ragioni” ideologiche schiacciate sotto le macerie del “secolo breve”.

Si è fatta strada in questi anni, tra le periferie e i territori metropolitani, nelle città sempre più multietniche, nelle piazze e nelle terre dei fuochi, una anti-cultura che promuove la sfiducia e la paura quali sentimenti più diffusi, con l’effetto progressivo e dirompente di rottura del vincolo o del legame sociale. Anti-cultura che si innesta su di un deficit di legittimazione per affermarsi come strumento di “delegittimazione”, sulla quale trova linfa l’anti cultura populista. Delegittimazione delle Istituzioni e della politica; delegittimazione della scienza, sulla base di una cultura pseudo tradizionalista e pseudo ambientalista e nel conflitto tra un “noi”, il popolo, e un “loro”. “Popolo contro establishment” come nelle più recenti adunate populiste. Il problema della delegittimazione, dice Veca, rappresenta il più grave attacco che la società nata con la rivoluzione scientifica e la democrazia liberale, abbia subito dal secondo dopoguerra. Obiettivo di queste (anti-) culture è di sgretolare la fiducia su cui si erge tutto il sistema delle istituzioni e delle relazioni a vantaggio di un qualche forma di ancien régime. La fiducia crea mutue aspettative e può essere considerata il sentimento base della socialità. Sulla fiducia, è riposta la legittimazione delle istituzioni: da quelle più elementari della socialità, che riguardano i rapporti tra persone come la famiglia, le amicizie e le varie realtà associative, fino alle più complesse, che sorreggono la società e lo Stato.

Nel vuoto creatosi si è insinuato il sentimento della sfiducia, della paura e dell’incertezza che riguarda in primo luogo il “senso” della verità. Si comincia a dubitare delle scoperte scientifiche e della veridicità delle cronache e delle versioni dei fatti, aprendo la porta al dominio delle fake news, delle “bufale”. La fiducia viene meno in parallelo col retrocedere delle conquiste sociali del secondo dopoguerra, nell’eccesso delle disuguaglianze e della precarietà, che negano, mortificano e irridono le ragioni e le motivazioni che rendono degne e desiderabili le scelte di vita delle persone. Nella disparità e diseguaglianza sociale e culturale, sotto il dominio della sfiducia reciproca, accade che “il patto sociale è infranto e torna sulla scena il contratto iniquo fra chi ha e chi non ha”, facendo venir meno la consapevolezza che “ciascuno di noi deve qualcosa a ciascun altro” poiché siamo coinvolti in una unica impresa. La coesione sociale allarga le sue maglie fino a scomparire nella designazione di un “altro” da noi che tende ad essere sempre più prossimo. Le disuguaglianze, che la crisi ha contribuito ad approfondire, hanno portato al collasso delle basi sociali del “rispetto di sé”, dice Veca.

I destini e i progetti di vita delle persone sono stravolti. Con la sclerosi della mobilità sociale, il panorama ritorna ad essere plasmato e dominato dall’arbitrarietà morale della nascita. Arbitrarietà morale ma anche culturale e geografica tra nord e sud, centro e periferia, dove qualsiasi idea di uguale considerazione e rispetto per le persone si assottiglia fino ad essere cancellato nel caso dei migranti. Si afferma così una concezione che vìola e deride l’idea stessa dell’uguaglianza di opportunità per tutti. Ma a quale uguaglianza si riferisce Salvatore Veca? Nella risposta a quale uguaglianza si pone il discrimine tra la vecchia ricetta della sinistra ugualitaria e la sinistra liberale che guarda come orizzonte all’Europa e ai diritti umani, quali limite di una giustizia sociale che abbia come fine l’intera umanità. Un modello alternativo rispetto a quello “neo comunitario”, per esempio, di Fabrizio Barca, oppure da quello redistributivo della retorica sindacale. Jean Jaques Rousseau vedeva nella proprietà l’origine dell’ineguaglianza, così la sinistra egualitaria fino al XX secolo ha seguitato a combattere le ingiustizie derivanti dalla proprietà privata e dal profitto, ispirata da una filosofia della storia che contemplava un lieto fine, sostenuto dal mito rivoluzionario, in un irrimediabile, quanto catastrofico, conflitto tra libertà ed uguaglianza.

La sinistra del XXI secolo è pragmatica e, come diceva Olof Palme, non combatte contro la ricchezza ma contro la povertà. L’uguaglianza, anche quella garantita dalle istituzioni, riguarda l’uguale rispetto che ognuno deve verso i piani e i progetti di vita dell’altro, nel riconoscimento del suo valore umano che riguarda l’impegno, le ispirazioni e le speranze. Le speranze di quel bambino senza nome che attraversava il mare con la pagella cucita dentro ai vestiti. Uguaglianza vuol dire reciprocità, essere capaci di immedesimarci nel punto di vista dell’altro. Una uguaglianza nel rispetto che “emerge – dice Veca – nella capacità di empatia e di identificazione nelle vite degli altri che con noi sono inclusi nel campo della comune umanità”. Una concezione in cui si avverte la risonanza della lezione di Norberto Bobbio. Una concezione in cui ritorna ad essere centrale il tema dei diritti, i “diritti fondamentali che le persone devono avere in quanto persone punto e basta”. Diritti tra i quali Veca, a fronte della marea di informazioni e disinformazioni rese possibili dalla tecnologia informatica, introduce il fondamentale “diritto alla verità”.

Una politica di sinistra deve essere volta a ridurre le ineguaglianze e promuovere il senso di fiducia. Amartya Sen conferma ciò che già intuirono i nostri Costituenti: non vi può essere vera democrazia se non vi sono uguali opportunità, dice Sen, se non vi sono politiche volte a rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno esercizio dei diritti di cittadinanza, “il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti” (art. 3 Costituzione della Repubblica Italiana). A fronte del venir meno dei valori e dei principi della coesione, la sinistra, dice Veca, si deve assumere il compito di essere generatrice di una “ragionevole speranza”, facendo leva “sia sulle ragioni dell’equità sociale sia sulle emozioni e sul senso di giustizia”. Il populismo, nella paura, dissolve la speranza; cancella il futuro e instaura la dittatura del perenne presente, dove conta solo il consenso. La sinistra, al contrario, deve stimolare le persone ad immaginare di nuovo il futuro attraverso la fiducia e la speranza, in una “concreta” utopia il cui pilastro centrale delle scelte sia nella sostenibilità. La sostenibilità riguarda il livello di benessere delle persone su un orizzonte temporale esteso: è sostenibile lo sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere le capacità delle future generazioni di soddisfare i propri. Nell’affermazione di questo fondamentale principio Veca chiama a testimone Papa Francesco che cita quella saggezza andina che ci ricorda che “noi viviamo del futuro che le generazioni dei giovani ci danno in prestito”. Il futuro deve quindi proiettare la sua luce sul presente, per consentirci di meglio discernere nelle scelte ambientali, tecnologiche ma anche in quelle economiche, perché provvedimenti troppo orientati all’eterno presente, proiettano un’ombra di sostenibilità proprio sui diritti delle giovani generazioni. In senso etico, “lo sviluppo sostenibile auspica che nel mondo il progresso economico abbia la più ampia diffusione; che la povertà estrema si eliminata; che la solidarietà sociale sia incoraggiata mediante politiche volte a rafforzare il sentimento comunitario; che l'ambiente venga protetto dal degrado provocato dalle attività umane. … lo sviluppo sostenibile propone un quadro olistico in cui la società punta a obiettivi economici, sociali e ambientali”.

In questo contesto, i pilastri di un progetto politico della sinistra del nuovo millennio non sono da cercare in nuove ideologie o nel ritorno a quelle desuete evocate nel nome di un ritrovato “sentimento popolare”, come direbbe Battiato. I pilastri per un nuovo progetto di cittadinanza globale e di lungo periodo non possono che partire dai diciassette obiettivi dell’Agenda 2030 dell’Onu nella ricerca di “una sorta di contratto sociale globale” fondato su principi di equità e rispetto dell’altro e dei limiti del pianeta in cui viviamo; in una società in cui “ciascuno sia libero di perseguire il proprio progetto di vita …e … imparare l’arte … di convivere nella diversità”. In definitiva il messaggio di Veca per la sinistra del XXI secolo è quello riguarda una “idea elementare alla base di una cultura politica del socialismo liberale e democratico” dopo “il secolo socialdemocratico”, un’idea che deve riguardare un messaggio che non si chiude nel perimetro nazionale, ma che riguarda la “gran città” del genere umano e un criterio globale di equità: l’idea “dello sviluppo umano come libertà”.

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