INTERVISTA

"Mettiamo a dieta le Regioni"

Nate per fare programmazione sono diventate enti di gestione. Enrico Costa parte dal No al referendum per spiegare quali sono le priorità per rendere più efficiente partecipazione e rappresentanza. Con quel sano pragmatismo che l'ha portare a scegliere Calenda

“Una diminuzione complessiva degli eletti può anche essere una buona cosa. Ma qui siamo di fronte a un paziente, il Paese, con molte patologie gravi al quale si prescrive soltanto una dieta, serve anche quella ma non è certo la cura principale. E, comunque, la dieta io la prescriverei innanzitutto alle Regioni”.

Enrico Costa festeggia il suo primo mese in Azione cui è approdato lasciando Forza Italia, ma anziché una candelina accende una miccia sotto quell’insegna, hic manebimus optime, ben fissata sia dal centrodestra sia dal centrosinistra all’ingresso di quegli enti che l’ex ministro per gli Affari Regionali nel governo Gentiloni accusa di aver mutato e allargato oltremisura il loro ruolo, accentuando le già troppe criticità del rapporto Stato-Regioni. Lo fa spiegando le ragioni del No al referendum e sparigliando le carte ideologiche, cavando dal mazzo l’asso del pragmatismo con il quale in meno di un anno Carlo Calenda ha portato Azione a raggiungere il 4 per cento.

Onorevole Costa, i Cinquestelle sono pronti a festeggiare la riduzione dei parlamentari e lei voterà No, ma sostiene che ad avere bisogno di una cura dimagrante sono, semmai, le Regioni. Anche in quale caso, basterebbe ridurre gli eletti per farle funzionare meglio?
“No. Io pongo una questione che non si limita certo al numero degli eletti. Vale per il Parlamento e, non di meno, per le Regioni. Quando si è votata la legge per la riduzione di deputati e senatori si è detto che si sarebbe fatta la riforma dei regolamenti parlamentari, quella della legge elettorale e altre ancora. Non si è fatto nulla. Se vinceranno i sì i Cinquestelle pianteranno la loro bandierina, ma non migliorerà nulla, anzi”.

Una dieta inutile, dice lei.
“E dannosa”.

Per le Regioni invece…
“Invece serve curare il loro rapporto con lo Stato, che oggi è una patologia gravissima per il Paese. Si sarebbe potuta risolvere con la riforma costituzionale di Matteo Renzi”.

Ma quel referendum venne bocciato e Renzi lasciò Palazzo Chigi.  
“È vero, ma la riforma venne bocciata non nel merito dei contenuti, ma per dare una spallata a Renzi che a sua volta commise l’errore di personalizzare il referendum. È andata così, ma quella riforma avrebbe toccato uno dei punti nevralgici del nostro Paese i cui effetti li abbiamo, purtroppo, visti anche nell’emergenza Covid. Il rapporto tra Stato e Regioni, segnato da un’indeterminatezza incredibile. Che ha ripercussioni anche sull’economia. Pensi alle difficoltà di chi fa impresa per sapere quali sono le norme regionali, statali e spesso rimanere imbrigliato in conflitti di attribuzione”.

Lei come la prescriverebbe questa dieta alle Regioni, di cui si è occupato da ministro?
“Intanto la diagnosi è chiara. Enti nati per fare programmazione sono diventati di gestione quotidiana, partecipano società, nel tempo hanno dato vita a ulteriori enti, questo è solo un esempio del mutamento rispetto al ruolo originario. Poi c’è la confusione sulle competenze. Da ministro dovevo avviare le impugnazioni dinanzi alla Corte Costituzinale di norme regionali e moltissime volte mi trovavo di fronte a un’indeterminatezza della legislazione che impediva di procedere. Su quella confusione c’è chi ci marcia: se una Regione fa una legge sulla legittima difesa, lo fa sapendo che sarà impugnata, ma intanto fa titolo sui giornali e permette di attaccare il Governo che la blocca”.

Quindi ridurre eletti e competenze?
“La dieta sugli eletti ci sta, ma non di meno quella sulla riduzione delle gestione, a favore della programmazione. E, soprattutto, mettere ordine nel rapporto con lo Stato. Bisogna agire con pragmatismo”.

Ripete spesso questa parola. Nella proposta post-ideologica di Azione è qualcosa di più di un enunciato?
“È ciò che serve a un Paese che non ha bisogno di essere ideologicizzato da sovranisti e populisti, ma necessita di persone che abbiano un approccio liberale, moderato. E guardi che moderato non significa moscio, ma vuol dire guardare il problema e cercare di risolverlo. Ciò che non è avvenuto. Oggi abbiamo forze politiche che cercano il titolo a effetto ma quando si trovano al dunque, al dover fare le cose, fanno esattamente l’opposto di quel che predicano”.

In questo Governo in cui lei è all’opposizione senza se e senza ma?
“In questo e anche in quello precedente. Sul tema della giustizia, non c’è stato niente di più forcaiolo di quanto partorito da Lega e Cinquestelle insieme. Adesso, il Pd che allora sparava a zero, si sta tenendo tutte quelle norme, a partire dai decreti sicurezza. E la Lega che strilla contro gli immigrati clandestini quando ha governato cos’ha fatto, si vada a vedere quanti ne ha rimpatriati. Ecco perché conta il pragmatismo. E perché piace Calenda, uno che si è misurato coi problemi e spiega come li affronterebbe concretamente”.

Un mese fa aderendo ad Azione lei ha spiegato di voler contribuire a costruire una grande casa dei liberali. Quello era il progetto iniziale e, per molti versi, incompiuto di Forza Italia, ormai schiacciato e sempre più cannibalizzato da Lega e Fratelli d’Italia. Se la accusassero di aver abbandonato la nave che affonda che direbbe?
“È evidente come Forza Italia si sia depotenziata. Oggi rappresenta un settimo del centrodestra, ogni tanto le riconoscono di poter esprimere una candidatura da qualche parte, come Stefano Caldoro in Campania, ma sono contentini. Detto questo, ho lasciato la responsabilità del settore Giustizia di un gruppo di 150 parlamentari e sono più che confortato di aver fatto una scelta in linea con la sensibilità delle persone che mi hanno accompagnato sempre nella mia vita politica e che sono liberali puri”.

Cosa succederà dopo il voto nelle sette regioni tra un paio di settimane?
“Non penso ci saranno effetti sul Governo anche in caso di una pesante sconfitta del centrosinistra. Pd e Cinquestelle sono imbullonati. Sull’altro fronte Salvini e Meloni conteranno i rispettivi voti. Ormai nel centrodestra è quello il derby. Lo giocano su un terreno, quello del sovranismo e del populismo, che non è e non può essere il mio. Sono e resto liberale, non sono io ad essermi spostato”.

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