INTERVISTA

Torino è in deficit. Di politica

Al capoluogo piemontese non mancano le risorse ma è necessario metterle a sistema: "Dobbiamo attrarre cervelli dall'estero e creare nuovi progetti di sviluppo". Partiti e istituzioni "riprendano il loro ruolo di regia". Colloquio con il professor Barba Navaretti

“È ora che Torino si risvegli e trovi una propria identità”. Che non vuol dire tornare indietro alla one company town o comunque a un sistema che ruota attorno a un unico asse economico, “al contrario deve partire da ciò che sa fare per ampliare le proprie specializzazioni e diventare una città sempre più aperta e dinamica”. Da Milano, dove insegna Economia politica alla Statale, il torinese Giorgio Barba Navaretti allunga l’orizzonte oltre la cinta daziaria e declina il futuro dell’ex capitale dell’auto lontano da quella tradizione della monocultura industriale che l’ha segnata nel secolo ferrigno. Alla guida del prestigioso Collegio Carlo Alberto, istituzione sorta agli inizi del Duemila con il preciso compito di sostenere e valorizzare le eccellenze della ricerca economica, sociale e giuridica, nonché snodo internazionale per la formazione di giovani talenti che arrivano sotto la Mole da tutto il mondo, Barba Navaretti quella Torino la conosce bene, soprattutto nella composizione delle sue classi dirigenti, e non solo da studioso affermato qual è. La sua famiglia ha intrecciato i rami con la Famiglia per antonomasia: gli Agnelli. Sua madre, Carla Ovazza, nonna di John Elkann, scomparsa venti anni fa, sposò in seconde nozze l’ingegner Guido Barba Navaretti; una rete fittissima di parentele, in particolare tra le grandi famiglie ebraiche, che avvolge buona parte del mondo imprenditoriale, finanziario e intellettuale torinese, dai Debenedetti ai Segre, dai Momigliano ai Tedeschi.

Professore, parliamo di Torino. Una città che secondo alcuni osservatori è caduta in una spirale di decadenza con un rapporto sempre più ancellare nei confronti di Milano. Tesi cui si contrappone la retorica che la vuole, di volta in volta, capitale dello sport, dell’industria, del turismo, della cultura. Qual è la verità?
Torino ha un insieme di assi portanti che possono essere la base da cui rilanciarsi. Un mix per molti versi unico di consolidata tradizione industriale innestato su un sistema universitario ad alto tasso di specializzazione. Un sistema culturale e turistico raffinato, un’imprenditoria sociale che trova nuove strade di finanziamento attraverso l’investimento d’impatto. Torino in questo è area di grande sperimentazione e le due fondazioni bancarie sul territorio possono fornire una spinta decisiva. Detto questo è evidente una fase di difficoltà: se prima la locomotiva d’Italia era il Nord-Ovest oggi l’economia più fiorente è a Est, mentre il vecchio triangolo industriale ha perso ritmo.

Vocazioni e core business: Torino è rinata nel secondo dopoguerra grazie alla manifattura, oggi pare aver perso la bussola. Da una parte quella leva è in parte venuta meno, per contro, però, resta ancora imprescindibile per l’economia. Ma se toccasse a lei scegliere su cosa punterebbe per rilanciare il capoluogo piemontese?
Non bisogna più ragionare su aree a vocazione unica. Oggi i complessi metropolitani più dinamici sono quelli che possono contare su diversi assi di sviluppo. Torino deve lavorare sui suoi tanti punti di forza: industria, cultura, turismo possono offrire soluzioni e prospettive di business in parte inaspettati. L’automobile e la meccanica e poi il polo dell’aerospazio sono in una fase di grande transizione tecnologica: ci sono sfide a cui bisogna velocemente adattarsi a partire dal digitale, soprattutto in una fase i cui l’epidemia e il lockdown hanno imposto relazioni sempre più “da remoto”. E poi c’è la transizione verso l’auto elettrica e quella a guida autonoma. Servono competenze molto diverse, c’è una domanda di servizi avanzati destinata ad aumentare anche per la manifattura.

Allora sarebbe importante iniziare a produrre… cervelli.
Produrli o portarli da fuori. Torino dovrebbe diventare una città aperta, molto più di quanto non lo sia oggi: Milano attrae competenze da tutto il Paese e anche dall’estero, il nostro è un contesto più locale. Dobbiamo imparare ad attrarre cervelli, cosa che il Collegio Carlo Alberto fa ormai da anni. C’è una sfida molto complicata con Milano: i sistemi di sviluppo tendono a creare poli metropolitani destinati a essere sempre più grandi che però rischiano di congestionarsi. In questo senso Torino offre spazi e risorse per cui potrebbe essere più facile attrarre persone.

Torino cresce meno di altre aree del Piemonte, rischia di essere sempre meno il centro di gravità del Nord Ovest d’Italia. Come cambierà la geografia della nostra regione nei prossimi anni?
Quest’area dell’Italia non può prescindere da Torino. L’obiettivo è creare un’integrazione tra i diversi poli con progetti comuni. Per esempio le Langhe hanno una meravigliosa storia di sviluppo che ha saputo sfruttare le proprie peculiarità, anche attraverso un marketing territoriale efficace: sarebbe un peccato se per quel mondo la metropoli di riferimento diventasse Milano e non Torino.

La sindaca Chiara Appendino, dopo il lockdown, ha parlato del rischio che le grandi città, a partire da Torino, potessero diventare delle bombe sociali. Lei ritiene che questo spettro esista ancora?
Non è un problema solo di Torino. Finora, almeno in parte, Governo, istituzioni pubbliche e private, le stesse banche hanno attutito iniettando ingenti somme di denaro a sostegno di famiglie e imprese. Presto però dovremo tutti confrontarci con nuovi modelli di sviluppo post-Covid e nel passaggio rischiamo di lasciare molti feriti sul campo.

Tra pochi mesi i torinesi sceglieranno il loro prossimo sindaco. Quasi trent’anni fa un grande patto tra la borghesia cittadina e gli eredi della tradizione comunista cittadina portò a una stagione di rinnovamento, culminata simbolicamente con le Olimpiadi. Oggi lei cosa vede all’orizzonte?
Quella fu un’esperienza straordinaria e anche oggi ci sono forze e risorse che potrebbero lanciare un progetto sociale ed economico innovativo. Ma attenzione, non deve essere un progetto contro qualcuno, ma che nasca sulle grandi leve di sviluppo della città e le usi per rilanciarla. Torino ha un grande problema  di disagio sociale ed è necessario che riprenda presto a crescere: i prezzi delle case sono ormai più bassi dei costi di produzione. L’elezione del sindaco è una grande occasione per far ripartire il contesto cittadino.

Cos’è mancato in questi cinque anni a Torino?
Torino è una città sfilacciata in cui i tanti punti di forza presenti – Università, fondazioni bancarie, industria – non sono stati messi a sistema per un progetto comune. È venuta meno la forza aggregante tipica della politica, è mancata una cabina di regia. Ciò che invece a Milano è avvenuto. Ecco in questo senso credo che il nuovo sindaco avrà innanzitutto il compito di aggregare tutte le migliori forze della città per metterle al servizio di un progetto di sviluppo condiviso.

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