Iveco con gli occhi a mandorla, noi strabici

Iveco, all’armi arrivano i cinesi. Questo il grido che si alza dal provincialismo a destra e a manca. Per chi non ricorda la trattativa era già in corso dal 2019, prima con un’altra azienda cinese ora con la Faw, poi la trattativa si è interrotta perché l’offerta, 3 miliardi, era troppo bassa; ora con 3,5 miliardi sul tavolo e il processo di scorporo tra “stradale” (camion stradali e autobus) da un lato e “non stradale” con macchine movimento terra e macchine agricole dall’altra, era già in corso un operazione che metteva, di fatto, Iveco sul mercato. Tant’è che nel corso della trattativa sindacale con l’azienda nell’autunno 2019 il problema dell’eventuale vendita fu messo sul tavolo dalle organizzazioni sindacali. Ovviamente l’azienda smentì.

L’operazione riguarderebbe soprattutto i siti di Brescia e Suzzara dove si producono Daily e Eurocargo (gli Stralis sono prodotti principalmente in Spagna) e gli Enti Centrali di viale Puglia a Torino. In tutto circa seimila addetti. Si tratta poi di capire quale quota i cinesi acquisiranno di Fpt, ma sarà sicuramente minoritaria.

Quindi un’altra azienda italiana, controllata  a maggioranza da Exor, cioè dalla famiglia Agnelli, passerebbe in mani straniere. In realtà, in Iveco già da anni si parla più americano che italiano e come dice qualche ben informato: “passiamo dagli americani ai cinesi e non dall’Italia alla Cina”.

Sono, ovviamente, partiti i cori contro la proprietà italiana che cede un’altra azienda “allo straniero”. Bisognerebbe invertire il paradigma e chiederci: dove sono gli imprenditori italiani che investono ancora nell’industria? In particolare nell’industria dell’autoveicolo. La grandi dinastie a capitalismo famigliare hanno preferito, favoriti dallo Stato che ha messo sul mercato le aziende pubbliche di servizi dalle comunicazioni, all’informatica, alle infrastrutture, alla difesa. La grande impresa non investe più in aziende in cui ci siano costi di produzione, mentre chi ha grandi capitali e necessità di espandersi, come la Cina, continua a accumulare aziende con tecnologia di eccellenza e a conquistare la logistica mondiale. La nostra imprenditoria punta a accaparrarsi il controllo delle autostrade, l’imprenditoria straniera punta a controllare la logistica delle merci controllando i mercati mondiali. Sta tutta qui la differenza.

Allora il problema non è Exor che vende agli stranieri ma l’incapacità del capitalismo imprenditoriale italiano a essere competitivo sui mercati. Ed è proprio per questa impotenza che in Italia “soffia” di nuovo il vento delle Partecipazioni Statali del 2000 attraverso Cassa Depositi e Prestiti e Invitalia. E sapete a chi piace di più questa idea? Proprio alle grandi imprese che vedono nel ruolo statale un surrogato per non investire. Chi, poi, vuole abbandonare l’Italia (come nei casi Whirpool e Embraco che sono diversi da Stellantis e Iveco) trova in questa strategia, perdente per il patrimonio industriale italiano, un terreno fertile perché sa già che tutti invocheranno l’intervento dello  Stato italiano e quindi può tranquillamente abbandonare il Paese. Infatti, a tutti piace l’idea di diventare dipendenti e/o manager dello Stato, piace ai politici di destra e sinistra perché porta consenso, purtroppo ci perde tutto il Paese. D’altro canto cosa ha fatto questo territorio e il paese negli ultimi dieci anni per trattenere la “famiglia”? Nulla. Anzi attacchi continui sul piano politico a partire dagli accordi sindacale del 2010, al dare per scontato che ogni mossa per evitare di scomparire (nel 2004 Fiat era tecnicamente fallita), alleandosi, è considerato un “vendere allo straniero”.

Iveco diventerà cinese ma i cinesi comprano non per chiudere e portare in Cina ma comprano per espandersi fuori dalla Cina. La Cina, con una popolazione di 1,4 miliardi e un Pil che torna a crescere, ha bisogno di espandersi in mercati nuovi per garantire i tassi di sviluppo del Paese.

Secondo le elaborazioni Anfia su dati di diverse fonti, la produzione mondiale di autocarri medi e pesanti ammonta ad oltre 4,49mln di unità (-2,5% sul 2018). Il 71% degli autocarri è prodotto in Asia, dove la Cina vale quasi la metà della produzione mondiale: 49%, con 2,21mln di unità, in aumento del 4,1% rispetto al 2018. Si può dire che un autocarro su due prodotti nel mondo è fabbricato in Cina. Seguono le produzioni di Giappone e India, rispettivamente di 506mila e 256mila unità. A livello mondiale, la produzione in Ue conta 434mila autocarri (-6% e una quota del 9,7%) e nell’area Nord America conta 584mila autocarri (+7,4% e una quota del 13%).

Giustamente il sindacato ha sollevato il problema dell’occupazione in particolare per New Holland di San Mauro su cui si diversificava nel piano industriale presentato nel 2019 le attività del sito. Credo che vada “giocata” una partita di rilancio con la Faw ponendogli il problema di quanti nuovi investimenti faranno in Italia per fare crescere l’occupazione nel settore. La qualità degli autocarri pesanti, dei Daily, degli autobus prodotti in Europa è nettamente superiore alle produzioni cinesi e non è pensabile trasferire produzioni in Cina per il mercato europeo e nordamericano. D’altra parte l’Europa è già “conquistata” non solo dai cinesi: la olandese Daf (maggior produttore di camion in Europa) è controllata da un’azienda americana  e la  “svedesissima” Volvo (auto e camion) è interamente controllata da una società cinese.

Nello stesso tempo per la Casa torinese, che ha stretto un accordo con l’americana Nikola, specializzata in camion elettrici e a idrogeno (ma ora alle prese con non pochi problemi), entrare a far parte di un grande gruppo permetterà di affrontare con proficue sinergie le norme sempre più stringenti in fatto di emissioni. Iveco, inoltre, è il più piccolo tra i produttori di camion in Europa, forte in tema di motori Lng (gas naturale liquefatto), ma costretto ad accelerare sui veicoli elettrici a batteria ed elettrici a fuel cell così da raggiungere gli obiettivi stringenti, imposti dalla Ue, per la riduzione delle emissioni.

Usciamo da provincialismo riprendendo una politica industriale stimolata dal Governo e non basata sul protezionismo e sullo statalismo. I vari Governi di vari colori si sono impegnati sprecando risorse su aziende decotte e mai sul creare spazi alle aziende sane per competere nei mercati mondiali. Le linee guida del Recovery Plan possono essere un occasione imperdibile, sennò a forza di guardarci la punta del naso diventiamo strabici con il rischio di inciampare.

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