ANALISI

"Il Covid ha infettato l'economia, ma la cura non è più Stato"

La priorità delle istituzioni doveva essere quella di proteggere il personale sanitario e gli anziani. E non lo hanno fatto. Poi una navigazione a vista che ha flagellato il sistema produttivo, tra ristori e assistenzialismo. Parla il prof. Colombatto, campione di liberismo

“Con la scusa del Covid si sono adottate regolamentazioni molto pesanti e misure che in tempi normali non solo non sarebbero state assunte, ma non sarebbero state nemmeno accettate dall’opinione pubblica. Se in tempi normali si fosse detto: domani mattina ci indebitiamo per 150 miliardi, probabilmente sarebbe scesa la gente in piazza. Oggi è dato per scontato che noi dobbiamo prendere questi soldi, una buona fetta dei quali è debito”. È un’economia, che pure già non stava per niente bene, infettata dalla pandemia quella cui guarda Enrico Colombatto, concludendo che certo la cura non può essere lo Stato. Ordinario di Economia Politica all’Università di Torino, un curriculum interminabile, posizioni quasi sempre controcorrente, liberale e liberista, nel 2011 in piena crisi lanciò il provocatorio, ma non troppo, Manifesto per far fallire l’Italia sostenendo la necessità di “una secchiata d’acqua gelata in faccia per risvegliarsi e guardare negli occhi la realtà”.

E qual è la realtà dell’Italia al tempo del Covid, professore?    
“Quella delle misure restrittive decise dal Governo, delle chiusure delle attività commerciali e produttive che produrranno una perdita del pil attorno al 10 per cento”. 

Fosse toccate a lei decidere, non le avrebbe imposte le chiusure, suppongo.
“Ognuno ha le proprie idee, io non me la sento di dire a un imprenditore: adesso tu smetti di lavorare, chiudi la tua attività. Avrei lasciato tutto aperto, poi i cittadini avrebbero scelto di andare dove si adottano precauzioni oppure no, o ancora acquistare nel negozio sotto casa o su Amazon.

Recentemente ha sostenuto che l’emergenza Covid ha finito con l’avvantaggiare i partiti. Un’affermazione forte
“Sgombriamo subito il campo, non vedo alcun complotto. Più semplicemente: se ci sono 200 miliardi da spendere, da chi vado a chiedere la mia fetta? Da un decisore politico. Se chiudo la mia attività produttiva i ristori a chi li chiedo? Alla politica. L’improvvisa disponibilità di euro a go go ha creato da una parte la domanda di aiuto e sussidio e dall’altra la disponibilità di risorse concentrate nelle mani della politica, dei partiti”.

Partiti che, però, proprio per impiegare al meglio possibili le risorse del Recovery fund stanno annunciando, da destra a sinistra, la fiducia al futuro Governo di Mario Draghi. 
“Infatti mi sembrano tutti a tappetino a osannare Draghi, anche quelli che fino a ieri dicevano che il governo Conte era il massimo e invocavano il primato della politica. Adesso tutto Draghi santo subito”.

Lei non lo dice?
“Io non sono per Draghi santo subito, sono più per santo, eventualmente e dopo”.

Non ha fiducia nel Recovery plan che predisporrà l’ex presidente della Bce?
“Ho fiducia che si possa presentare un piano serio, sulla carta. Draghi sa pensare e sa fare queste cose e se non le fa lui sa a chi farle fare bene. Ma tra presentare un programma che vada bene all’Europa e realizzarlo ce ne corre. Serve una macchina pubblica efficiente e non sono così sicuro che nei prossimi mesi Draghi sarà in grado di ristruttura a fondo la pubblica amministrazione italiana, il modo con cui la nostra politica e la nostra burocrazia spendono i soldi. Gli esempi recenti non sono particolarmente edificanti”.

Magari finirà la sequela di Dpcm che Giuseppe Conte sfornava senza soluzione di continuità.
“Abbiamo avuto una navigazione a vista. Non è possibile dire alle attività produttive: si riapre, si richiude, nel giro di quindici giorni o meno ancora. L’attività di impresa non si programma dalla sera alla mattina. Invece sembra che si sia corso non tanto dietro a una strategia, quanto a quattro indicatori in croce, peraltro tutti da discutere”.

I morti continuano ad essere molti anche adesso che la pandemia sembra segnare un calo e gli ospedali non sono più allo stremo. Lei pensa che lo Stato abbia fallito anche sul fronte sanitario?
“L’unica cosa che avrebbe dovuto fare lo Stato in prima battuta era proteggere il personale sanitario e gli anziani. E non lo ha fatto. È vero che è facile giudicare col senno di poi, però non ci voleva un’aquila per capire che quelle erano le priorità assolute. L’Italia è uno dei Paesi che ha gestito peggio la pandemia. Non sono un medico, ma qualcuno dovrebbe dare delle spiegazioni e chiedere scusa”.

Delle spiegazioni molti le attendono anche sulla gestione dell’emergenza affidata alla struttura commissariale diretta da Domenico Arcuri. Avrebbe dovuto semplificare le procedure, invece sembra rivelarsi l’ennesimo centro di potere, non indenne dalla burocrazia e farraginosità. Nemmeno cercando di semplificare, accentrando su una struttura ad hoc si riesce a uscire dalle pastoie? 
“Come al solito in Italia si ricorre a soluzioni balcaniche. Quando c’è un problema si cerca di risolverlo creando un ministero nuovo o una nuova struttura. Non funziona così. Si diluiscono solo le responsabilità”.

La crisi economica e sociale prodotta dalla pandemia si è innestata su quella che ancora non era stata superata. Colpa anche in questo caso del troppo peso dello Stato, nella visione liberista come la sua? 
“Lo Stato è troppo pesante e inefficiente e non mi riferisco solo alla burocrazia e alle troppe norme, ma anche a un sistema giudiziario che non funziona, alla eccessiva pressione fiscale e molto altro ancora. Il ragionamento è semplice: se sono un potenziale imprenditore in un mondo globale e ho la possibilità di scegliere dove andare a sviluppare l’attività non vedo certo l’Italia ai primi posti. Il miracolo è che siamo riusciti a galleggiare pur di fronte a un calo degli investimenti e l’attività imprenditoriale sia scoraggiata. Grazie al cielo ci sono le piccole medie imprese”.

Professore non trova che a sostenere le tesi liberiste siano più studiosi e accademiche come lei piuttosto che gli imprenditori dai quali ci si attenderebbe una visione di questo tipo?
“È proprio così. La nostra classe imprenditoriale fra alzare la testa in un moto di orgoglio e convivere con lo Stato, confidando in aiuti e assistenzialismo, ha scelto la seconda strada. Pensi a Confindustria e al ruolo che hanno nell’associazione imprese che una volta si sarebbero dette a partecipazione statale. Altro che fior fiore dell’imprenditorialità privata. La classe imprenditoriale è fiacca, abituata a cercare il privilegio piuttosto che l’innovazione. Il problema è che non si è stati in grado né di stimolare un rinnovamento della classe imprenditoriale dall’interno, né di attrarre da fuori imprese innovative.

Il blocco dei licenziamenti non potrà durare per sempre, cosa accadrà quando finirà? 
“Sarà lacrime e sangue. Credo che si finirà con l’inventarsi qualche meccanismo sul tipo del reddito di cittadinanza. Con una classe imprenditoriale debole, con le difficoltà a creare impresa, molti dei licenziati non verranno riassunti”.

Intanto Fca e Psa hanno celebrato le nozze, mascherando quella che come sta scritto nei documenti è una compravendita. Oltre allo Stato a non funzionare è anche la grande impresa privata?
“Da torinese mi dispiace molto. Non ho azioni Fca, però capisco che un azionista sia contento. Se un grande gruppo industriale esce dall’Italia vuol dire che l’Italia non ha le caratteristiche necessarie per consentirgli di svilupparsi e crescere. Prendo atto che se un’impresa va all’estero o viene acquisita da gruppi stranieri vuol dire che c’è qualcosa che non funziona nel Paese o in chi vende”.  

Il Piemonte era pronto a varare un piano di sviluppo, poi la pandemia ha stravolto i disegni. Nessuno rinuncia a rimarcare le forti e diffuse potenzialità della regione e del suo capoluogo. Lei come vede il futuro del Piemonte?
"Lo vedo grigio. Domandiamoci quanti piemontesi vorrebbero andare a lavorare a Milano o in Lombardia e quanti lombardi sognano di venire a lavorare il Piemonte. Lì abbiamo la risposta. Su come invertire questi flussi è la domanda da rivolgere agli imprenditori, sono loro che devono attirare investimenti. Certo la politica negli ultimi decenni non ha aiutato molto e se andiamo a vedere come le istituzioni pubbliche si sono mosse per attrarre finanziamenti e investimenti non per fornire sussidi, ma veri, in Piemonte c’è da piangere”.

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