TRAVAGLI DEMOCRATICI

Pd Piemonte, zeru tituli: "Abbiamo perso l'identità"

Anche l'ultima infornata di sottosegretari conferma la conclamata marginalità del partito regionale negli equilibri nazionali dem. Il segretario Furia nel mirino: troppo debole. Borghi: "Archiviare via Chiesa della Salute o rimarremo in condizione larvale"

Zero europarlamentari eletti, zero ministri nel nuovo governo di Mario Draghi, zero sottosegretari. Insomma, zeru tituli per il Pd piemontese, sempre più isolato nel panorama politico nazionale, proprio nell’anno delle elezioni amministrative a Torino (e a Novara), con il centrosinistra che si accinge a lanciare alla Lega il suo guanto di sfida. Ma come si è arrivati a una tale marginalizzazione? Prova a spiegarlo Enrico Borghi, deputato del Vco – uno che contro l’isolamento combatte da quando è nato – e tra i massimi referenti nazionali di Base Riformista, la componente degli ex renziani, da un po’ di tempo ormai in fibrillazione nei confronti del segretario Nicola Zingaretti. “Se vogliamo guardarla da un punto di vista storico, il problema è che il Piemonte non ha più un’idea di sé nel contesto nazionale – spiega Borghi –. Dopo la fine della grande fabbrica e dell’impianto fordista e per il ritardo della Tav, che renderebbe Torino e il resto della regione un nodo dell’Ue, il Piemonte si è ripiegato su se stesso. Dentro questo ripiegamento che è anche la negazione dell’identità più profonda del Piemonte, che ha sempre avuto vocazione nazionale e un ruolo di traino nei processi di trasformazione del Paese (dall’Unità d’Italia all’industrializzazione). Noi ora stiamo vivendo, invece, una fase di ripiegamento e assenza di un ruolo nella prospettiva nazionale. È qui la radice della nostra emarginazione”.

Eppure altri partiti hanno ottenuto di più: il Movimento 5 stelle ha un ministro e un viceministro (Fabiana Dadone e Laura Castelli), Forza Italia è riuscita a piazzare Gilberto Pichetto nella casella numero due del Mise. Il Pd ha perso l’unico suo rappresentante, Andrea Giorgis, nonostante l’apprezzato lavoro al ministero della Giustizia. Perché?
“Fatta la premessa che non è un sottosegretario in più o in meno che decide lo status di un partito o di un territorio, nel Pd c’è una questione nella questione. Il tema più generale è il tema dell’identità del Pd: cosa siamo oggi di fronte alla novità vera che è l’agenda Draghi? Serve uno sforzo consistente per diventare motore di una stagione di riforme che il Pd non deve lasciare agli altri. Sarebbe un errore clamoroso se il partito facesse lo schizzinoso e se si comportasse come se l’agenda Draghi non interpellasse la propria identità, non fosse nel proprio dna. Noi siamo nati pensando a una forza riformista che si candida alla guida del Paese non per un lascito ereditario di ciò che fu. In questo tema generale c’è poi la questione territoriale”.

Che oggi resta centrale e che sta provocando più di un mal di pancia…
“Le riforme non si fanno se non coinvolgendo i territori. Se invece il Pd si trasforma nel partito della vocazione minoritaria e del presidio della fascia sinistra, magari chiuso tra le Mura Aureliane e il Grande raccordo anulare, è evidente che la questione territoriale esplode. Quanto accaduto nel Nord-Ovest è  avvenuto anche nel Nord-Est e nel Mezzogiorno. Ti concentri sulla contingenza senza porti il problema della rappresentanza”.

Sembra essere tornati indietro di 15 anni: esplode la questione settentrionale nel Pd, proprio mentre nella Lega è la componente più tradizionale (e nordista) incarnata da Giancarlo Giorgetti e Massimo Garavaglia ad aver imposto la linea a Matteo Salvini, spostando di nuovo il baricentro del Carroccio oltre la linea gotica.
“Giorgetti ha un disegno molto preciso in testa che è un modello tedesco, con il Lombardo-Veneto che diventa la Baviera italiana e un partito territoriale forte in grado di rappresentare quella che è l’area più ricca del Paese. Così la Lega diventa la Csu che in Germania che governa assieme alla Cdu: di qui l’obiettivo di entrare nell’alveo del Ppe e del conservatorismo italiano. Il Pd ha un’autostrada davanti perché è l’unico partito a vocazione nazionale, ma questa si declina con vocazione maggioritaria, spirito riformista e con lo sforzo di rappresentare tutto il Paese (che non è solo la D’Urso)”.

Intanto, il partito dimentica la questione territoriale e trova pace solo attraverso la spartizione tra le correnti, che ci sono sempre state ma oggi sembrano tenere in ostaggio il segretario.
“Le correnti prendono piede quanto un partito non ha un’agenda, non ha un’identità e non ha una vocazione. Ed è ciò che sta accadendo”.

Torniamo al Piemonte. Nello scenario appena descritto, ci sono delle responsabilità anche dell’attuale governance del Pd regionale e in particolare del segretario Paolo Furia, che è orgogliosamente parte dell’area Zingaretti, che qualcuno malignamente definisce la “corrente tailandese” del Pd?
“Il partito in Piemonte dovrebbe fare il salto e archiviare via Chiesa della Salute o vivrà come pallida riedizione di un passato che fu glorioso, ma che non torna più. Rimarrà marginale e larvale. Bisogna costruire davvero quello che volevamo costruire e non la riedizione riveduta e corretta di ciò che è stato”.

Serve un congresso?
“C’è chi lo invoca auspicando un regolamento dei conti con gli ex renziani e chi invece lo evoca per una rivisitazione degli assetti. Ma entrambi gli approcci sono fallaci: il tema è molto più profondo, se non sciogliamo il nodo della natura identitaria del nostro partito. Io sono per dire che dobbiamo fare i Democratici con la D maiuscola e non il Partito democratico. Serve un country party, il partito del paese, come dicono gli americani. Che sia rappresentativo del Paese che parli al Paese.

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