PALAZZO CIVICO

Carpanini e quel "vuoto" in città

I vent'anni trascorsi dalla sua morte proprio a un passo dal coronare il sogno di diventare sindaco di Torino sembrano un'era geologica. Eppure il suo profilo politico e la sua passione civile sono più che mai attuali. Come certe meschinità di alcuni "compagni" - VIDEO

È morto vent’anni fa, in un mercoledì di neve, nel salone Ascom di via Massena che neppure il fiato delle oltre 500 persone presenti era riuscito a riscaldare. È morto sul campo, Domenico Carpanini, a parlare di politica, di Torino, di come avrebbe voluto governare una città allora, come sempre, alle prese con trasformazioni che ne stavano minando identità e futuro. È morto alla sua prima uscita pubblica da candidato sindaco del centrosinistra, mentre si apprestava a duellare con Roberto Rosso, lo sfidante che il centrodestra gli aveva contrapposto, sotto gli sguardi atterriti di tanti amici e sostenitori, che avevano raccolto l’invito di Giuseppe De Maria, il mitico Pino dei fiori, capo dei commercianti, promotore del primo faccia a faccia in vista delle elezioni. È morto, il Carpa, a 47 anni, mentre stava per realizzare il sogno perseguito con tenacia e lungimiranza in anni di impegno politico iniziato da giovanissimo, nel 1969, nei Comitati di quartiere, antenati delle Circoscrizioni, e poi dal 1980 in Sala Rossa, eletto nelle liste del Pci, ricoprendo ruoli via via più rilevanti: capogruppo del neonato Pds, presidente del Consiglio comunale e, in ultimo, vicesindaco della giunta “marmellata” dei professori, guidata da Valentino Castellani.

Estraneo ai salotti, resistente agli obblighi dell’etichetta e refrattario ai riti mondani dei tinelli subalpini, Carpanini era un amministratore capace e puntiglioso, conosceva Torino in ogni suo anfratto, l’aveva battuta per anni palmo a palmo, e continuava a girarla in lungo e in largo: “Dai fammi il nome di una via e ti dico dove si trova”, era la sfida che più lo inorgogliva. “Sapeva tutto delle sue storie vive, dei suoi ceti più diversi, delle sue luci, delle sue ombre e delle sue viltà”: raro esempio di politico di vaglia che unisce a una solida cultura amministrativa la profonda conoscenza della città e dei meccanismi spesso tortuosi che la sovrintendono. Come ebbe a ricordare Giuliano Ferrara, la cui antica amicizia era passata indenne dalle traversie umane e politiche di entrambi, “se c’è uno che aveva imparato tutto della società attraverso la scuola politica era lui. Se c’era uno, onesto e disinteressato per mera eleganza del tratto, che avrebbe potuto governare la città, era un tipo come lui. Se c’era uno che conosceva il lato debole del potere, e lo sapeva comprendere per servirsene senza lasciarsene usare, era Carpanini, figlio di una generazione cinica ma non rozza”.

Eppure proprio i suoi compagni di partito – i “comu” come beffardamente li chiamava lui, riformista ante litteram, anzi migliorista – si sono distinti nel boicottare la candidatura, un’azione orchestrata in certi salotti cittadini che lo consideravano privo di appeal, senza quel physique du rôle obbligatorio allo spettacolo della politica, dipingendolo come un oscuro apparatchik. Lui reagì alla sua solita maniera, con intelligenza e abilità tattica, dosando sferzanti battute anticonformiste che, infatti, colpirono nel segno. Alla girandola di candidati in pectore, tutti esponenti della fantasmagorica società civile – da Evelina Christillin a Franzo Grande Stevens, passando per l’ex rettore del Politecnico Rodolfo Zich – nomi che comparivano a giorni alterni sulle cronache locali dei giornali, imbeccati dai soliti noti per sbarrargli la strada, replicò con sagacia: “Possibile che non ci sia neppure un italiano in grado di fare il sindaco di Torino?”. Il tributo di popolo che si manifestò alle sue esequie smentirono pregiudizi e meschinità.

Gli fecero venire il sangue amaro prima di trangugiare il boccone della sua candidatura. Ma la sorte è stata ancor più tiranna del gruppo dirigente diessino. Lo chiamavano Maigret perché amava Simenon, ma per stazza, baffi e impermeabile d’ordinanza ricordava il Poirot della Christie. Lo chiamavano sceriffo perché si occupava dell’ordine pubblico, dei vigili urbani e della sicurezza dei cittadini. Gli davano dello stakanovista, e lo era, del burbero, e lo faceva, del burocrate, e lo lasciava intendere. Il municipio era la sua casa, la sua bottega, la sua ragione di vita. A Palazzo di Città era il primo ad arrivare e l’ultimo ad andarsene. Fumava troppe Marlboro. Ha lasciato sul suo conto corrente poco più di tre milioni, delle vecchie lire. Un politico atipico. Che non ha lasciato eredi. Nessuno.

 

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