SACRO & PROFANO

I "partiti" della Curia preparano l'arrivo del nuovo Vescovo

Tra nostalgici della stagione pellegriniana e "boariniani", prende piede una componente neo tradizionalista di preti refrattari all'ideologia ecclesiale per decenni egemone nella diocesi di Torino. Divisioni che peseranno sulla Chiesa del dopo Nosiglia

È venuto a mancare in questi giorni monsignor Piergiacomo Candellone, lo storico segretario del cardinale Michele Pellegrino, la cui figura, a trentacinque anni dalla morte, continua ad essere il riferimento di molti preti e resiste – spesso avvolta nel mito – nei suoi tardi epigoni. I preti “pellegrini ani”, figli di quella stagione segnata dal post-Concilio e dal ’68 ecclesiale, sono ancora un certo numero che però, a causa della loro età avanzata, si riduce di anno in anno ed è chiaro che una generazione di preti anziani  difficilmente può essere protagonista di una nuova stagione della Chiesa. Tale gruppo vanta figure di spicco e ancora influenti. Tra questi, oltre agli attempati ex preti operai, c’è l’ex vescovo di Aosta monsignor Giuseppe Anfossi ma, soprattutto, quello che da sempre è la vera eminenza grigia della diocesi. Si tratta dell’intramontabile ex vescovo ausiliare monsignor Guido Fiandino un tempo – ma qualcuno dice ancor oggi – decisivo nelle nomine e nei trasferimenti dei parroci e dei superiori del seminario. Affabile e suadente, l’ex parroco e attuale vice parroco della Crocetta, ben rappresenta, molto più di altri preti che spesso compaiono sui media, il progressismo ecclesiastico torinese d’antan.  Un fronte che vagheggia, nella venuta a Torino del vescovo di Pinerolo, monsignor Derio Olivero, il ritorno ai fasti del cardinale Pellegrino e l’attenzione a quei “segni dei tempi” che tuttavia, per essere da loro riconosciuti come tali, devono rifarsi sempre ai favolosi Anni Sessanta e Settanta quando ancora le chiese erano piene e i seminari non desolatamente vuoti come adesso.

Vi è poi un secondo gruppo di preti di mezza età che presenta una peculiarità tutta torinese. Anch’essi teologicamente e politicamente progressisti sono conosciuti in diocesi come i “Boariniani” in quanto eredi spirituali di don Sergio Boarino che fu rettore del seminario negli Anni Ottanta e inizio Anni Novanta. Hanno un profilo intellettuale e il loro nucleo è insediato alla chiesa di S. Lorenzo e nella facoltà teologica di via XX settembre dove in gran parte insegnano, ma non mancano fra di loro i parroci.  Esponenti di spicco sono monsignor Mauro Rivella, attuale parroco di Santa Rita e dai prestigiosi trascorsi romani, don Roberto Repole, direttore della facoltà e presidente dei teologi italiani e, fra i parroci, don Paolo Resegotti, conosciuto come il “papa-re” di Grugliasco. Il loro attuale ispiratore e mentore è il teologo e filosofo don Giovanni Ferretti. Molto legati fra loro, sono visti come un gruppo compatto e organizzato che si riunisce regolarmente, quasi a costituire, come affermano i detrattori, una specie di setta. Ciò che li caratterizza è l’assoluta autoreferenzialità ed è per questo che i vescovi, pur considerandoli, ne hanno sempre avuto un certo sospetto. Il loro candidato è monsignor Vittorio Viola, vescovo di Tortona, noto per la sua spiritualità e sensibilità liturgica ma dal carattere indeciso e facilmente influenzabile.

Infine vi è un terzo gruppo che, pur meno numeroso e appariscente, costituisce però la vera novità e rappresenta per i primi due, segnati da sterilità vocazionale e pastorale, un problema, in quanto sfuggono alla loro egemonia e potrebbero in futuro organizzarsi. Si dice, infatti, che quando due o più preti della diocesi si trovano, l’argomento principale, dopo il toto-vescovo, sia la critica feroce ai preti giovani e alla loro pastorale arretrata ma non priva di seguito. Indicati spregiativamente come “tradizionalisti”, rappresentano una realtà cresciuta nel tempo e sono caratterizzati dalla relativa giovane età. Destarono scandalo e timore nel clero benpensante le ordinazioni del 2013 – definite da un noto esponente progressista un “errore del sistema” – quando i novelli sacerdoti si presentarono all’imposizione delle mani con la veste talare la quale, per il prete medio torinese, rappresenta un cattolicesimo del passato da cancellare e reprimere. Dopo di allora, il seminario fu normalizzato, cambiando i superiori e i neo sacerdoti avviati alla “rieducazione” presso parroci “avanzati”. Per nulla affascinati dal progressismo storico e dalla sua variante “boariniana”, i preti di questo gruppo non sono organizzati, ma anzi dispersi e spesso chiamati, in quanto generalmente obbedienti, a tappare i sempre più numerosi buchi delle parrocchie. Non affetti dalla nostalgia dei primi e lontani dall’ideologismo dei secondi, si possono definire come fedeli alla dottrina e alla pastorale tradizionale, non anticonciliari, come si dice, piuttosto fautori della “riforma nella continuità”.  Non hanno leader, ma sperano che il nuovo vescovo venga il più possibile da altre regioni e che, pur ovviamente progressista, sia estraneo alle soffocanti e stantie dinamiche che da troppi anni paralizzano la diocesi sino a rendere il cattolicesimo torinese sempre più  marginale e scontato. 

Tratti di questo panorama ecclesiale torinese li si trova in un libro del sociologo Giuseppe Bonazzi che, quando uscì nel 2016, passò abbastanza sotto silenzio. Si tratta de La fede dei preti. Un’indagine etnografica (Rosenberg & Sellier), dove, pur sotto il velo dell’anonimato e coperti dallo pseudonimo, i preti torinesi, classificati secondo tre componenti – innovatori, istituzionali e conservatori – venivano interrogati su questioni come la natura della risurrezione di Cristo, i miracoli del Vangelo, le apparizioni mariane, l’efficacia della preghiera, il problema del male o su questioni più scottanti come l’uso dei contraccettivi, l’aborto, le coppie conviventi omosessuali. Dalle risposte emergeva una molteplicità di posizioni anche estreme, con visioni su questioni di fede ed ecclesiali agli antipodi, insieme con una polarizzazione e una divisione in correnti. L’autore, laico e agnostico, non poteva non concludere come fosse «ragionevole prevedere che malcelate fratture già oggi presenti si estenderanno nel corpo della Chiesa». Di fronte ad un tale quadro caratterizzato dalla confusione dottrinale e dalla divisione, l’incredibile postfazione di don Roberto Repole, era improntata all’ottimismo e all’apprezzamento del pluralismo «come effetto della sovrabbondanza del mistero della fede» anche se poi era costretto ad ammettere che «un conto è il sano ed essenziale pluralismo che solo può onorare, in uno, l’eccedenza del mistero e la molteplicità delle persone; ed altro è il pluralismo che quasi dissolve il cristianesimo». Ed è proprio il lento ma inesorabile dissolvimento di quel cattolicesimo, da decenni egemone a Torino, la situazione che il nuovo vescovo si troverà ad affrontare.