VERSO IL VOTO

Nessuno crede al bluff di Conte, al M5s resta la carta Appendino

Mentre la sindaca si scagliava contro il Pd, l'ex premier vaneggiava di candidati civici per rinsaldare l'alleanza. I grillini non sanno più dove girarsi mentre il Nazareno blinda le primarie (e il suo vincitore). Qualcuno salvi il soldato Grimaldi

“Sta bluffando, in mano non ha niente”. Fumo negli occhi, manovre di disturbo, espedienti per distrarre l’attenzione e prendere altro tempo. Nel centrosinistra il credito di Giuseppe Conte, il forse leader di un partito che non c’è, è quasi del tutto esaurito, persino tra quanti erano pronti ad affidargli le sorti magnifiche e progressive di una coalizione bislacca dipingendolo, con un grande sforzo d’immaginazione e non minore azzardo, “punto di riferimento dei progressisti”. Non credono, ovviamente, al suo rilancio su “un candidato della società civile che a Torino può mettere d’accordo Pd e Movimento 5 stelle”. Come un guitto di provincia sbaglia i tempi, il fu avvocato del popolo oggi azzeccagarbugli per tentare di intestarsi una ditta sull’orlo del fallimento. Parla di “sinergie” e “accordi” mentre il centrosinistra sta per celebrare le primarie e il numero del Nazareno Enrico Letta è costretto a prendere atto che “non c’è possibilità di alcuna convergenza a Roma e Torino”. La prima e l’ultima capitale d’Italia croce e delizia di Giuseppi leader sulla fiducia del Mo' Vi Mento. Dalle stelle alle stalle, in un lustro il M5s ha dilapidato un patrimonio, di voti ma saoprattutto di credibilità. E se Letta aveva confessato all’inizio della sua via crucis che sulle amministrative “mi gioco l’osso del collo” ora è proprio l’ex premier a temere per la sua fragile spina dorsale in vista delle urne d’autunno, il suo debutto da capo politico.

Le Comunali, in fondo, sono sempre state un terreno di battaglia ostico per i grillini, privi di una struttura di partito, di un gruppo dirigente radicato sui territori e ora senza neanche quell’entusiasmo che cinque anni orsono aveva contagiato Torino e Roma. Si rischia un tonfo, per questo Conte sta intensificando il pressing su Chiara Appendino per convincerla a ricandidarsi, dopo che Virginia Raggi lo ha costretto, nei fatti, a sostenerla mentre lei si premurava di minare il campo sotto i piedi di Nicola Zingaretti, con l’aiuto della nemica amatissima, Paola Taverna. Ad Appendino, Conte ha detto di non farsi problemi degli impedimenti statutari, provvede lui, specialista in codicilli, a spianarle la strada: il terzo mandato? Le condanne? “Non ti preoccupare”. Lei per ora resiste, ma è come una fiera in gabbia, senza possibilità di determinare la sua successione e senza la forza di essere competitiva alle elezioni (l’ultima cosa che vorrebbe è andare a schiantarsi contro Stefano Lo Russo, suo acerrimo nemico che però stima riconoscendogli competenza e tigna). Abbandonata persino da chi sperava potesse essere al suo fianco. Il primo è stato Sergio Chiamparino con cui la grillina bon ton condivide cinismo e piacioneria e con il quale aveva pianificato il dopo di lei a Palazzo Civico, gettando nella mischia il rettore del Politecnico Guido Saracco. Un piano andato all’aria, certo, per sopraggiunti (gravi) problemi famigliari del Magnifico ma non meno per una buona dose di arroganza nel volerne imporre regole e tempi, come una camicia di forza alle rispettive riottose formazioni politiche. Da quel momento l’atteggiamento dell’ex sindaco e governatore è cambiato, forse è stato il primo a comprendere che non c’erano più spazi per una convergenza tra Pd e M5s. Allora Appendino ha cercato una sponda nella sinistra Pd e in Leu che intanto avevano dirottato le loro attenzioni sul chirurgo Mauro Salizzoni, prima che anche lui si sfilasse, poi su Claudio Marchisio, ci mancavano solo i due leocorni. Che di serpenti, topi e oranghi ce n’erano a bizzeffe.

Arrivano le primarie e anche l’estremo tentativo del Nazareno di inserire nelle consultazioni del centrosinistra il M5s naufragano di fronte al niet del Pd locale e della maggioranza degli altri partiti. L’unico alleato di Appendino è rimasto il capogruppo di Luv in Regione Marco Grimaldi, un altro che non sapendo che pesci prendere evoca fantomatici “campi larghi” per arginare “l’onda nera”, come se a Torino qualcuno possa credere davvero che alle spalle del ricco imprenditore del Barolo stiano tornando gli spettri del Ventennio. Come dice Marx siamo alla farsa. E così il giorno dopo lo schiaffo della sindaca al Pd – “non lo voterò in caso di ballottaggio” – Grimaldi se la prende proprio con i dem, che in teoria sarebbero i suoi alleati. “Un conto è pensare che non ci siano le condizioni per un’alleanza giallo-rossa, un altro è fare di tutto per rendere contendibile la città e spalancare le porte all’onda nera”.

Per il Pd ormai il dado è tratto, persino Francesco Boccia, responsabile Enti Locali del Pd, che pure ha lavorato fino all’ultimo per dare corpo a un accordo in sintonia con quel BisConte di cui è stato ministro, se n’è fatto una ragione (non prima, a quanto raccontano fonti romane, di un duro scontro con Letta): “Il Pd e il centrosinistra si presentano alla città di Torino con un percorso partecipato, che coinvolgerà migliaia di cittadini e che merita il rispetto di tutti. Sarebbe stato bello avere il Movimento 5 Stelle, non è accaduto e ne rispettiamo le scelte, come vogliamo vengano rispettate le scelte dell’intero centrosinistra” ha detto l’ex ministro. Poi si tira fuori da ogni altra trattativa: “Saranno le primarie a decidere il candidato del centrosinistra. Chi le vincerà sarà il leader di una coalizione unita e avrà il mandato popolare per trattare con chiunque”. Un messaggio chiaro a Conte, a Luigi Di Maio, ad Appendino.

Ma quale candidato della società civile? Quali campi larghi? Il massimo che potrà fare il M5s, se Appendino non si lascerà convincere, è candidare l’assessore alle “Famiglie” Marco Giusta, per rivendicare le battaglie dell’amministrazione pentastellata per i diritti. Lo stesso Giusta, d’altronde, cui nei mesi passati Appendino aveva affidato il compito di costituire una lista che avrebbe voluto affiancare a quella dei Cinquestelle. Figurarsi se uno come Saracco si fa prendere in mezzo in questa babionia: sa bene il rettore che se in autunno la sua candidatura poteva rappresentare l’opzione civica attorno alla quale riunire pezzi significativi della città, oggi sarebbe solo la sintesi di un accordo di potere tra due partiti in crisi. “E io con voi che c’azzecco?”, pare abbia risposto ricorrendo al gergo dipietresco a chi lo interrogava su un suo possibile ripensamento.

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