VERSO IL VOTO

Lo Russo, un bogianen napuli che vuole cambiare Torino

La sua elezione a sindaco segnerebbe la chiusura simbolica della stagione ferrigna (e matrigna) aperta con i cartelli "Non si affitta ai meridionali". Un figlio di immigrati cresciuto nel culto del doverismo sabaudo. Non piace alla sinistra fafiuché e dell'apericena

“Stefano, comincia a prenderti un diploma”. Perché pigiare anche solo un pulsante più in alto dell’ascensore sociale voleva dire in famiglia, come in tante famiglie, rispondere con un azzardo alla domanda se l’Università, poi, ce la si sarebbe potuta permettere. Un passo alla volta, senza mai arretrare. Nojàutri bogioma nen, rispose il conte di San Sebastiano sull’Assietta alla richiesta di ritirarsi. E vuoi vedere che ci vuole uno che di cognome fa Lo Russo per ricucire gli strappi di una storia, chiudendo finalmente quella stagione ferrigna (e matrigna) aperta con i cartelli “Non si affitta ai meridionali”? Riscatto e risarcimento, non solo personali. A ben vedere, quello che potrebbe diventare il primo sindaco figlio dell’immigrazione dal Sud, incarna lo stilema più profondo della torinesità: un mix di doverismo sabaudo, etica calvinista del lavoro, senso della misura e della compostezza, serietà. Insomma, un bogianen napuli.

Come arrivò il diploma di perito elettrotecnico dai salesiani dell’Agnelli, poi la laurea con lode, la nomina a professore ordinario di Geologia applicata al Politecnico, uno dei più giovani a salire in cattedra, così per Stefano Lo Russo è arrivato il momento, dopo una buona e dura gavetta con ruoli via via più importanti, di pigiare un altro di quei pulsanti, stavolta dell’ascensore della politica, o meglio ancora dell’amministrazione della sua città. Entrato per la prima volta in Sala Rossa nel 2006 con l’Ulivo ci è rimasto fino ad oggi, passando da capogruppo di maggioranza ad assessore all’Urbanistica e poi, adesso, di nuovo capogruppo sui banchi della minoranza dai quali in questi cinque anni di amministrazione grillina non ne ha fatto passare una alla sindaca e alla sua giunta, fischiando i mille e mille falli di Chiara Appendino, Come quando faceva l’arbitro di calcio, perché fin da ragazzino aveva capito che fare il calciatore sarebbe rimasto un sogno e dunque meglio la realtà.

E di fronte alla sua personale Assietta, quando tutto sembrava precipitare e persino tra i suoi compagni d’arme più d’uno vacillava davanti all’avanzata di Guido Saracco, lui è rimasto fermo, granitico nella sua intenzione, in quell’obiettivo coltivato in anni e anni di apprendistato. Sono dieci anni che studia da sindaco, dicono certi suoi detrattori con l’intento di censurarne la smodata ambizione, neppure immaginando di quanta verità contenga l’accusa. Sì perché in questo 45enne volitivo, determinato, precisino fin oltre la pedanteria, c’è la consapevolezza che solo con il sacrificio si possono ottenere risultati e rivendicare ruoli e incarichi. E se qualcuno ha colto i tratti da professorino nei suoi interventi è perché in quell’Aula piena zeppa di somari c’è chi sull’incompetenza ha preteso di costruire carriere.

Il professor Lo Russo ha deciso di scalare la sua vetta, come scelse di fare quell’estate di tanti anni fa di andare in montagna a Cogne per lavorare come gelataio o più tardi in America Latina nell’Operazione Mato Grosso di don Aldo Rabino, il cappellano del Toro, a lungo figura di riferimento per il giovane politico a dispetto delle opposte fedi calcistiche. Ha deciso di correre per diventare sindaco e mentre altri ragionavano su schemi e strategie, lui partiva.

Concede poco o nulla all’immagine: “Ascolta, Progetta, Cambia Torino” è lo slogan scelto per la sua campagna, un claim non propriamente elettrizzante a confronto con quella un tantino ruffiana “Torino Bellissima” coniata da quello che probabilmente sarà il suo principale antagonista, Paolo Damilano, già pronto a sedurre i torinesi a colpi di “Più tramezzini per tutti”. Piacione proprio per niente, in mezzo a tanti che lo sono o ci provano. Difficile trovare uno dall’understatement più sabaudo di lui. Facile per chi vuole storcere il naso, quello spesso con la puzza attorno, giocare contro o comunque non proprio a favore di uno che manco quando gli chiedono il suo piatto preferito prova a giocarsela ammiccando e ti scodella lì una “pasta al pesto”, che più ligure non si può, ma anche il vitello tonnato, le acciughe al verde e il tiramisù. E non è un caso che Sergio Chiamparino, uno che sa distinguere popolarità dall’autorevolezza e sa quanto effimera e volatile sia la notorietà, lo sostenga convintamente.

Non lo ama troppo, o per niente, la sinistra dell’apericena, quella che ancora non si rassegna alla mancata alleanza nel nome di Conte e di Appendino, che non gli ha risparmiato trincee e mine in un’apoteosi del fuoco amico. Lontana anni luce la sinistra dei fafiuchè, quella che si piace, che se la suona e se la canta (del resto musici e saltimbanchi sono in abbondanza) arrivando persino a dare un nome a un Signor Nessuno pur di sbarrargli la strada. E che forse non perdona e si stranisce nel pensare a uno che davvero si è fatto da solo, nella professione come nella politica, passo dopo passo, senza mai fare un passo indietro. Bogianen. E pure self made man, come dicono quelli abituati a pigiare subito l’ultimo bottone in alto dell’ascensore. Salvo scoprire spesso, senza ammetterlo mai, che scendere al pianterreno, in politica, è un attimo. 

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